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“Questo gli Dei causarono, e ordirono sventura agli uomini / perché ci fosse per le genti avvenire materia di canto” dice Alcinoo in Omero a tutto commento del racconto di Ulisse.
Non che la parola – il canto – sia il solo modo di esprimere la realtà qual è veramente vissuta. Ma le forme d’espressione non verbali, dal gesto alle istituzioni e ai costumi (ethos) di una società, fino agli edifici, alle pitture e alla musica, sono certo sottese e sostenute dall’impulso della parola, che è impulso di scelta, di ordine e di comunicazione: logica.
Se si tratta di descrivere la realtà vissuta nel modo più diretto e più direttamente persuasivo, cioè di esplorare i confini dell’anima come il geografo quelli di una terra sconosciuta, sembra che, tra il principio del diciottesimo secolo e il principio del ventesimo, i moderni abbiano, se non creato in senso assoluto, almeno elaborato in modo originale una forma singolarmente adatta allo scopo. Questa forma è il romanzo. Inseguendo l’ideale di una completa prosaicità e completa aderenza ai casi della vita quali attualmente capitano, nonché al linguaggio di tutti i giorni, il romanzo, infatti, era un genere letterario che veniva a por fine ai generi letterari, e con essi alle leggi e regole retoriche ereditate dall’antichità: una forma, cioè, del tutto nuova di scrittura, la sola completamente libera da canoni prestabiliti, e in questo propriamente moderna.
“A proposito di ciò di cui stiamo parlando, vi racconterò una storia”: questo è il principio esplicito o implicito di ogni narrazione. E, in quanto forma naturale d’espressione, il romanzo nasce sempre da una premessa di questo genere, caratteristica della narrazione a viva voce. Esso si distingue dalla favola o dalla storia fantastica del tipo Mille e una notte in quanto è sempre un racconto “a proposito di ciò di cui stiamo parlando” (ossia di una situazione, questione o argomento comune), mentre scopo della storia fantastica (come indica molto bene l’esempio di Sheherazade, che con l’invenzione favolosa deve riuscire a allontanare da sé di notte in notte la condanna a morte) è, al contrario, di distrarre dalla realtà presente, non di riportarvici.
Romanzo è narrazione, e narrare significa letteralmente “far conoscere”. Se si pensa al romanzo qual è stato da Defoe a Proust e un po’ più oltre, si può dire che il suo intento è di far conoscere un’esperienza umana in forma di “storia”, cioè di successione di eventi immaginari nella forma ma “veri” nella sostanza, in quanto vogliono essere il rendiconto verace di un viaggio – di un pilgrim’s progress – attraverso i meandri della società reale e attuale.
Ora, che cosa è implicito in una storia così intesa? Anzitutto, come s’è accennato, un interesse – anzi, una realtà – comune al narratore e agli ascoltatori, e con esso la fiducia del narratore che il rapporto fra la storia che egli si appresta a raccontare e “ciò di cui stiamo parlando” sarà chiaro. Senza la complicità degli ascoltatori, e la supposizione di un comune interesse in una stessa realtà, il racconto romanzesco, siccome non ha né il carattere di un ragionamento rigoroso né quello di una dimostrazione scientifica, sarebbe privo di forza probante: pura favola. Mentre, come s’è già osservato, il romanzo si distingue dalla favola per il fatto di volere comunque, attraverso la finzione, far ritorno al mondo reale e attuale, anzi, a esser precisi, non staccarsene mai.
Pura favola, no. Ma, in quanto vuol distogliere l’attenzione dagli interessi immediati e dagli argomenti astratti per portarla su un’immagine del mondo reale, il romanzo è anche favola. Tale immagine, d’altra parte, può essere libera, ironica, grottesca o deformante quanto si vuole – come per esempio in Stendhal, in Dickens o in Gogol – ma avrà sempre per materia la realtà attuale e, attraverso questa, il mondo morale comune al narratore e ai suoi lettori. Si può dire che il potere di fascinazione di un romanzo sta nella favola, ma la sua forza di persuasione nell’immediatezza del suo rapporto col mondo reale. Una narrazione scritta si rivolge al lettore singolo e solitario e lo “incanta” nel senso proprio della parola, in quanto per persuaderlo della propria “verità” deve “evocare” la realtà comune con tanta vivezza da provocare il sentimento che “le cose stanno effettivamente così”, cioè che i casi narrati potrebbero esser veri. Giacché, nel romanzo, il fatto che ciò che vi è finto potrebbe esser realmente accaduto è prova sufficiente di verità. Anzi, il genio del romanziere consiste propriamente nel convincere il lettore che, se le cose accadessero in realtà come dovrebbero realmente accadere, esse accadrebbero come nei suoi romanzi: i commercianti piccolo-borghesi inebriati dal miraggio del denaro andrebbero alla rovina come César Birotteau e le ragazze si innamorerebbero come Natascia Rostov.
Un tal potere, una tal fiducia nel lettore singolo e nella sua disposizione a prestar fede alla verità del racconto, la virulenza contagiosa della finzione, presuppongono, d’altra parte, l’esistenza di una comunicazione particolarmente immediata e fiduciosa fra il romanziere e i suoi contemporanei; e questo, a sua volta, significa che, prima di rivolgersi a un “pubblico” generico e anonimo, il romanzo si rivolge a una “società” già disposta a ricevere le rivelazioni del romanziere riguardo alla “vera storia” degli individui attualmente viventi.
“Pubblico” e “società” non sono la stessa cosa, né il romanziere può rivolgersi indifferentemente all’uno e all’altra: per quanto volesse il successo, Balzac non scriveva per un pubblico, come può fare un Simenon, ma per una società ristretta di cui egli conosceva bene l’ethos e alla quale egli non voleva imporre l’acquisto dei suoi libri, ma il riconoscimento del potere divinatorio della sua immaginazione. A un pubblico si può in definitiva far accettare (con espedienti tecnici o con mezzi esteriori a ogni intenzione propriamente significativa, ivi compreso il fiuto pubblicitario) qualunque prodotto culturale, purché abbia un marchio di fabbrica divenuto per una ragione o per l’altra prestigioso: gli si può anche imporre la lettura di Flaubert o di Mallarmé, il fatto rimarrà d’ordine sociologico e commerciale. Ma a una “società” di cui si ambisce conquistare l’anima bisogna dare esempi veri e convincenti della sua condizione reale.
Nicola Chiaromonte da Il tarlo della coscienza , il Mulino, Bologna 1992