Smirne come Troia, come Corinto, come Cartagine: una città splendida data alle fiamme, cancellata nella sua parte antica, nella memoria di una convivenza tra stirpi, lingue e religioni differenti. Bisogna ammetterlo: l’Oriente antico e medievale, fino ai primi del Novecento, era infinitamente più variegato e tollerante culturalmente e religiosamente di quanto sia oggi. E ciò che ne ha cambiato il volto è stato il nazionalismo, la peste del mondo.
La lettura del romanzo di Antonia Arslan La strada di Smirne (Mondadori 2009), compimento del precedente La masseria delle allodole (di cui qui) genera in me due pensieri. Il primo riguarda gli imperi. Essi si creano mediante la forza, e la loro costruzione esige sangue e vittime. Una volta costruiti, però, solitamente garantiscono pace e tolleranza, a causa del loro fondamento nella molteplicità. Così il sogno della pace universale è sempre un sogno imperiale. Quando un impero si dissolve, la violenza cresce in modo esponenziale.
Il secondo pensiero riguarda la città. La distruzione di Smirne antica, la “bella infedele” come è chiamata nelle tragico-elegiache pagine della Arslan, evoca altre distruzioni di splendide città, e la weiliana idea che una città sia infinitamente più della somma dei suoi abitanti. Il mostruoso espandersi degli aggregati urbani della nostra epoca è l’altro volto della distruzione militare delle città. In entrambi i casi è l’anima della città ad essere annientata, e con essa le anime di coloro che vivono nelle sue case.

«Il nazionalismo, la peste del mondo». Come non essere d’accordo…
Da che cosa nasce il nazionalismo? Perché non ci si limita a descrivere un legame fra delle persone, un territorio e delle idee, e, invece, lo si impone, pretendendo che ognuno di questi elementi sia legato agli altri in modo esclusivo?
L’ha ribloggato su Brotture.