Rileggo Simone Weil 45

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Se pensassi che Dio m’invia il dolore con un atto della sua volontà e per il mio bene, crederei di essere qualcosa, e trascurerei l’uso principale del dolore, che è d’insegnarmi che sono niente. Non si deve dunque pensare nulla di simile. Ma è necessario amare Dio attraverso il dolore (sentire la sua presenza e la sua realtà con l’organo dell’amore soprannaturale, l’unico che ne sia capace, così come si sente la consistenza della carta attraverso la matita).
Allo stesso modo lo spettacolo della miseria degli uomini m’insegna che essi sono niente, e, a condizione che io m’identifichi con loro, che io sono niente. Non è solo in quanto essere umano determinato, è in quanto essere umano che io sono niente. In quanto creatura.
Debbo amare d’essere niente. Come sarebbe orribile  se io fossi qualche cosa. Amare il mio nulla, amare d’essere nulla. Amare con la parte dell’anima che si trova dietro al sipario, perché la parte dell’anima che è percettibile alla coscienza non può amare il nulla, ne ha orrore. Se essa crede di amarlo, vuol dire che  ama altra cosa che il nulla.
La sventura estrema che colpisce gli esseri umani non crea la miseria umana, la rivela soltanto.
Dobbiamo alleviarla, quando possiamo, unicamente per questa ragione. Dobbiamo evitare di cadere in essa ovvero di uscirne quando possiamo, perché essa deve venire dal di fuori, essere subita. E dobbiamo amare come noi stessi, nello stesso modo con cui amiamo noi stessi, l’essere umano che il caso mette in nostro potere di aiutare. (II 198 )

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Nulla e nullità possono essere detti in senso simbolico, a indicare la pochezza, la fragilità e inconsistenza, la transitorietà. O possono essere detti in senso rigorosamente filosofico, a indicare il puro non-essere. L’oscillare tra i due campi semantici, quello della mistica più o meno filosoficamente consapevole (e la formazione di S.W. è filosofica) e quello della metafisica, produce nei testi weiliani una sorta di nebbia, a volte percorsa da bagliori che la rendono iridescente, a volte fittissima e accecante. In ogni caso, i due nodi, quello della Creazione e quello dell’Incarnazione, rimangono sempre. Il pensiero di Simone Weil urta contro questi due scogli, che sono il punto dolente di ogni catarismo. La nullità dell’uomo e quella del creato stanno, infatti,  insieme: se il creato è qualcosa, e qualcosa di buono e di amabile, come la Bibbia proclama all’inizio, anche l’uomo è qualcosa di buono e amabile. Anzi: a tal punto è amabile che Dio assume la natura umana in toto, compresa la morte, proprio per salvare l’umano dal nulla in cui la sua brama di autodivinizzazione (cioè di essere Dio, esattamente la brama satanica, che non accetta la differenza da Lui) tende a precipitarlo. Se la creazione fosse stata operata da Dio semplicemente perché potesse dar luogo alla de-creazione, e l’uomo perché potesse aspirare ad essere nulla, diverrebbero assolutamente inconcepibili e contraddittori l’essere creato dell’uomo ad immagine di Dio e l’essere umano di Cristo. Un puro nulla non può essere amato se non da un amore che è anch’esso nulla, e questo non è neppure pensabile, perché due nulla sono un solo nulla. La mistica e il nichilismo sono sempre pericolosamente vicini.

 

11 pensieri su “Rileggo Simone Weil 45

  1. A me “rigorosamente filosofico” sembra una contraddizione in termini: gran parte delle filosofie sono mutuamente esclusive e non vi è quindi alcuna “rigorosità” comunemente accettata se non quella, di contorno, della correttezza filologica, ovvero del riportare quanto più onestamente ed accuratamente possibile il pensiero di ciascuno.

  2. Si tratta di linguaggio, e dei concetti espressi in un linguaggio. Del non-essere i filosofi discutono da filosofi, e il loro discorso non può avere carattere non filosofico. Le filosofie, se sono vere filosofie, non si escludono, ma sono tra loro in rapporto dialettico. Un discorso materialista può essere rigoroso tanto quanto un discorso spiritualista.

  3. Non direi che tutti i filosofi accettino il non-essere come argomento sensato. Come ogni vera religione ritiene di essere “la religione”, ogni vera filosofia ritiene d’essere “la filosofia”. Presupporre i poteri della dialettica è già un prender posizione filosofico, per non parlare dell’uso di parole quali metafisica o Dio. Quel rigore al quale accenni mi sembra il controllo di una corretta applicazione delle regole di derivazione all’interno di un sistema formale, nel quale però gli assiomi e le regole stesse non siano soggetti ad alcun controllo od accordo preventivo. Ma se gli assiomi sono pazzi e le regole deliranti, quale importanza può avere un’esatta applicazione di quest’ultime? In tal caso direi piuttosto che “anything goes” ed allenterei anche quella pedanteria residua arbitrariamente ristretta su di un singolo aspetto della faccenda: accordiamo dunque a ciascuno il diritto ad un proprio misticismo intangibile, e limitiamoci a vedere quale ci sembri più bello, senza pretendere di dire quale sarebbe più vero, pretesa – se applicata agli argomenti di questo post (nientemeno che la psicologia di Dio) – palesemente assurda.

  4. Esiste una teoria delle differenze filosofiche, che ne spiega la divergenza integrandola in una dialettica di posizioni e controposizioni. Tutti gli uomini intelligenti capiscono, ma pochi capiscono correttamente il capire. Propriamente, non esistono che tre filosofie a partire dalla concezione dell’atto d’intendere: realismo critico, nominalismo e idealismo. Il fatto è che la filosofia che uno professa dipende dal livello di auto-appropriazione cui è giunto, cioè da quanto capisce dell’atto di capire.

  5. Non temere Elio, se per così poco mi fossi molesto non sarei un filosofo (e già qui puoi vedere che la mia concezione della filosofia non è quella di un “filosofo analitico”, che per la mia tradizione di riferimento usurpa il nome).

  6. Grazie Fabio, ho proprio bisogno di interlocutori robusti. D’altronde il bagaglio leggero da incursore “nichilista” mi serve a provare a delineare il tracciato di una “fortezza” che intendo soltanto esplorare, e non dare alle fiamme.

    Ciao Valter! Certo, ci sono le posizioni e le contro-posizioni, ma ci dev’essere qualcosa di irriducibile, o di fondamentalmente arbitrario, nel vero centro di tutte queste articolazioni, se gli “intelligenti” non riescono proprio a formare un campo coeso. D’altra parte, nella mia visione delle cose, questo fenomeno è del tutto ovvio – a chi aderisce maggiormente al senso di certe parole l’onere di una spiegazione.

    Per sintetizzare un po’: pur trovando il materiale del post estremamente interessante, io non credo che la Weil possa davvero dirmi qualcosa su Dio, ma soltanto mostrarmi qualche suo modo, talvolta suggestivo, talvolta bislacco, di intrecciare i materiali con i quali l’umanità da sempre si trastulla. Né credo, tanto per fare un altro esempio, che S.Agostino sia davvero un “santo” – cioè abbia per davvero una relazione particolare con Dio – ma soltanto una persona estremamente interessante.

  7. E’ chiaro che un credente non potrà mai parlare, in relazione ai testi sacri e alle riflessioni su di essi, di “materiali con i quali l’umanità da sempre si trastulla”. Dunque, caro Elio, qui è anzitutto una questione di differenza di approccio. L’approccio del credente presenterà sempre una differenza sostanziale da quello del non credente, e ad esso sarà infine irriducibile. Dico questo perché credo anch’io che per te non abbia alcun senso confrontarti coi testi di Simone W.. Lo ha invece per uno come me, che pensa che la Bibbia e la tradizione che ne deriva contengano una rivelazione divina.

  8. Caro Elio (intanto non so se ringraziare te o Gianruggero per l’invio del primo numero di “Ali”, rivista assolutamente degna d’attenzione, lo faccio qui, in attesa di parlarne sul blog), io non ho parole per ciò che concerne la vita di fede, al massimo per la teologia che, essendo una scienza (fondata sul presupposto della fede) ha una sua coerenza argomentativa. Per questo intervengo su ciò che è “filosofico”: qui l’accordo sarebbe possibile, se si volesse laicamente analizzare la chiave di ogni filosofia, cioè l’atto del comprendere. Tra Platone, Aristotele ed Epicuro, si passa una dialettica che si ripropone in diverse varianti nei tempi. Diciamo che tutti e tre si comportano da persone intelligenti e ragionevoli, ma non tutti ne traggono le conseguenze teoriche. Per l’uno l’oggetto dell’intelligenza è altro dal mondo, per l’altro è forma del mondo, per il terzo è esperienza del mondo. Per quello che mi è dato di capire, il realismo critico è la verità del conoscere, di cui le altre due posizioni sono l’una un’anticipazione immatura, l’altra il rifiuto di una sua versione ossificata. E’ un equilibrio difficile da mantenere: se ne trova la versione medioevale in Tommaso d’Aquino, e la versione contemporanea in filosofi come Gilson o Lonergan.

  9. @Fabio: la differenza non poteva delinearsi più chiaramente, e questo rende l’interesse nelle tue formulazioni ancora maggiore. Mi sarà certamente utile tenerne conto.

    @Valter: Gianruggero è il boss e a lui vanno tutti i meriti :-) Riguardo al tuo discorso, che seguo in silenzio sul tuo blog, devo ancora pensarci sopra molto, anche perché non voglio intervenirci troppo rozzamente. Mi impressiona favorevolmente per articolazione e coerenza interna, però non tutti i petali che da esso si dipartono mi convincono. Ma innanzitutto devo capire la struttura centrale della corolla, e mi serve tempo :-)

    Un caro saluto a entrambi.

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