di Eric Gans
Data la minimalità della sua ipotesi fondativa, l’antropologia generativa non si deve preoccupare dell’esistenza di un universo “spirituale” al di là della sfera delle parole e del significato. La sola, perché minimale, forma di trascendenza necessaria ai nostri propositi è quella della rappresentazione stessa. Che l’uso delle parole non suggerisca immediatamente una realtà trascendente è un prodotto dell’estensione pratica del linguaggio alla realtà, la “secolarizzazione” che cominciò con la prima parola, che è espressione insieme di adorazione/interdizione e di desiderio pratico, designando un oggetto sulla desiderabilità del quale vi è un accordo unanime che lo rende interdetto come intero ma tanto più desiderabile nelle sue parti. Questa linea di ragionamento ci consente un approccio allo spinoso problema del “libero volere”. Sebbene gli animali comprendano i loro atti “volontari”, non possono riflettere su di essi come noi facciamo, rappresentando a se stessi degli stati futuri alternativi che essi possano scegliere o non scegliere di conseguire. La spiegazione minimale della scena interna della coscienza, sulla quale noi riproduciamo le nostre intenzioni, conseguendo la capacità di rappresentarle e conseguentemente di modificarle, è che essa derivi dalla prima memoria umana della scena umana originaria. L’emissione del segno è un atto di volontà che non può essere ridotto alle modalità del decidere tipiche degli animali: il segno non è un mero gesto ma una rappresentazione, emessa in quanto avente un significato o intenzione irriducibile al gesto stesso. L’essere esterno del segno/gesto rispetto al suo significato è realizzato in actu entro il gruppo, e il significato trattenuto nel “lexicon” interno dei partecipanti è quello dell’esperienza dell’appartenenza al gruppo intero che reagisce al segno come designante/interdicente il suo oggetto.
Il nostro possesso delle rappresentazioni è la caratteristica centrale di quello che chiamiamo la nostra “coscienza”. Gli animali hanno intenzioni e fanno calcoli, ma manca loro una “teoria della mente” che gli consenta di comprendere e predire non solamente le azioni ma le intenzioni di altri esseri. Come ha mostrato Richard van Oort, basandosi sugli studi sugli scimpanzé di Michael Tomasello, anche gli animali più evoluti, sebbene chiaramente in grado di reagire alle intenzioni degli altri (come un animale-preda evita i suoi predatori), sono incapaci di attribuire un’intenzione ai loro compagni, per esempio, nell’insegnare/imparare una nuova tecnica. Da questo si può concludere che a queste creature manca una teoria della loro stessa mente ed essi non possono attribuire un’intenzione a se stessi. Gli umani acquisiscono una comprensione intuitiva dell’intenzionalità degli altri e di se stessi attraverso l’uso condiviso di rappresentazioni. A differenza delle azioni strumentali degli scimpanzé, gli atti linguistici sono intrinsecamente intenzionali—l’intenzionalità è tutto ciò che sono. Noi siamo in grado di vedere le intenzioni altrui perché per principio esse possono essere formulate nel linguaggio. (3 – continua)
