Educazione alla morte

Educazione alla morte (sottotitolo: Come si crea un nazista) è il titolo di un libretto di Gregor Ziemer (Education for Death. The Making of the Nazi, 1941, ed. italiana a cura di B. Maida, Città Aperta, Troina 2006). L’argomento è l’educazione mediante la quale i giovani tedeschi durante il regime nazista venivano condotti, fin da bambini, al desiderio di sacrificare la propria vita (e quella di altri) per Hitler e per la Germania. Si dovrebbe leggerlo per non sentirsi tanto diversi dai ragazzi che in Palestina o in Iran o in qualche altro paese islamico sono allevati nell’odio e nel desiderio di vendetta e distruzione. Per non meravigliarsi dei kamikaze che annientano le loro giovani vite per l’ideale islamista. Anche l’Occidente, non molto tempo fa, ha conosciuto dinamiche simili.
Ecco un passo del libro di Ziemer in cui l’autore va a visitare un ragazzino nazista malato, che brama di morire per Hitler.

Sì i ragazzi di Hitler sono pronti a morire per lui. Ne ebbi un’altra prova inconfutabile allorché il nostro vecchio amico di famiglia, il dottor Schroeder, mi invitò ad accompagnarlo per una visita professionale.
«Pensavo che vi sarebbe interessato vedere quel che Hit­ler e la sua filosofia hanno fatto ad un fanciullo tedesco», mormorò nel segreto della sua vettura, mentre stavamo ser­peggiando attraverso il traffico della Wilmersdorferstrasse.
Trovammo il nostro indirizzo: una donna sulla quarantina, allampanata e grigia anzitempo, ci aprì la porta. Le stanze erano poveramente arredate; l’ornamento più in vista era un ritratto di Hitler. La donna ci condusse nella camera da letto.
«Ecco il mio piccolo paziente», Schroeder mi sussurrò al­l’orecchio. «Nove anni, una polmonite».
Su una branda giaceva la forma irrequieta di un ragazzo dalla faccia magrissima. Il dottore gli prese la mano per ta­stare il polso. Il ragazzo gliela strappò via con violenza, la lanciò in alto e gridò con voce delirante: «Heil Hitler!».
Guardai la mamma. «Se soltanto non l’avessero fatto marciare», disse rocamente. «Sapevano che non stava bene. Ma hanno voluto che marciasse lo stesso. Ci vogliono giorni per arrivare alla Leuchtenburg – è vicino a Kahla, in Turin­gia – per la promozione all’Avanguardia. Suo babbo è nelle guardie d’assalto. Ha detto che il ragazzo doveva andare. Non voleva un debole per figlio. E ora…»
Dalla branda venivano parole… parole stridenti, penetranti. «Lasciatemi morire per Hitler! Debbo morire per Hitler!». Ancora e ancora, implorando, accusando, scongiu­rando, lottando contro la vita, lottando contro il dottore, lot­tando per morire.
«Glielo hanno detto alla cerimonia che doveva morire per Hitler», continuò la povera mamma. «Ed è così giova­ne…».
Si accasciò, singhiozzando. Guardai di nuovo il ragazzo. La sua faccia estatica portava l’espressione di un martire cri­stiano morente per il Redentore. Il braccio destro era prote­so in alto, rigido, come stecchito. Le labbra continuavano a formare le parole che l’anima ardente suggeriva irresistibil­mente:
«Debbo morire per Hitler!».
Il dottor Schroeder si chinò sopra il suo paziente e gli fece un’altra iniezione. Le grida divennero gemiti, poi cessarono.
«Suo babbo dice che se muore, allora muore per Hitler», la mamma mormorò con una voce senza suono.
«Vedete ora quel che intendevo dire?», domandò il dot­tor Schroeder quando fummo di nuovo nell’automobile. «II ragazzo vuole morire. Che cos’è questa dottrina, capace di pervertire persino gli istinti?» (pp. 88-89)

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