Anche nell’attuale dibattito sulle posizioni di Vito Mancuso si usano a profusione le parole Dio, Spirito, ecc. Parole che hanno millenni di storia. E, in questo dibattito, c’è il pericolo di farsi inebriare, di non più propriamente pensare, ma farsi trascinare dall’emozione che sorge dal proprio vissuto, dalle parole lette, dai testi sacri, e così via. Risonanze che annebbiano l’intelligenza di che cosa “spirito” sia. Poiché nulla è peggiore del dominio che sull’anima esercitano i nomi, e i confini dei nomi si sovrappongono. Perché “Dio” è “vita”, “Dio” è “spirito”, “spirito” è “vita”, “vita” è “energia”, ecc. ecc.
Del resto, anche le parole più usate, se assunte criticamente, si rivelano estremamente problematiche. Si prenda cosa. A me piace l’espressione cose contingenti. Bertrand Russell, prototipo di molti atei contemporanei, si rifiuta di applicare alle cose il termine “contingente” perché se lo facesse dovrebbe ammettere che si dia la possibilità che esista qualcosa che contingente non è. Quindi per lui noi dovremmo dire solo “cose”, perché è assunto che esse non possano essere altro che “contingenti”. In questo modo, tuttavia, l’idea della contingenza viene solo dislocata, rimanendo un paradossale pensiero non pensato. Non dissimilmente dall’ateismo, che non può essere che secondario e derivato, e mai un primum, dipendendo da una primitiva idea di Dio.
“Il taglio netto della testa causa sempre la morte di chi lo subisce”: questa proposizione enuncia una verità. E se sì, di che ordine?
“Hitler ha governato la Germania”: questa proposizione enuncia una verità? Di che ordine?
Se qualcuno parla di verità scientifiche, giuridiche, sociali, e opinioni, e poi afferma essere cosa vacua chiedersi di che ordine siano le verità espresse in quelle due proposizioni (“Il taglio netto della testa causa sempre la morte di chi lo subisce” e “Hitler ha governato la Germania”), gli sfugge che affermare che esse “sono solo vere”, implica un concetto apriori di verità (che non è giuridica né sociale né scientifica e non è nemmeno un’opinione). Oggi mi sembra quanto mai necessario problematizzare un concetto di verità corrente che mi sembra ingenuo.
Intendo dunque dire non che il contenuto della proposizione “Hitler ha governato la Germania” è vero a priori, ma che l’affermazione della veridicità di quella proposizione implica necessariamente un’idea a priori della verità e della veridicità in sé. Aggiungo che se non condividessimo un’idea generale di verità non potremmo nemmeno dialogare, su nessun argomento.
E poiché non si può pensare Dio senza pensare la verità, io enfatizzerei molto, nella mia prospettiva girardian-gansiana, come il Dio di Nietzsche, al quale non possono non riferirsi i teologi e i filosofi di oggi, a prescindere dalla loro posizione, non muoia accidentalmente, o di vecchiaia, come molti lettori sembrano aver inteso, ma sia stato UCCISO. E questo riporta il discorso sul rapporto tra religione, violenza, sacrificio e genesi degli idoli (o dèi). Il rapporto critico è quello tra verità e potere (che è sempre, in qualche misura, potere idolatrico, cioè religioso).
Aggiungerei che oggi tutti i poteri di questa terra si riempiono la bocca di Amore e di Emozioni, ma sono nemici del Pensiero (abbiamo un papa teologo, però). E su questo c’è da pensare….
A mio parere il discorso nietszcheano della morte di Dio è il discorso dell’uccisione di Dio. E Dio secondo lui è stato ucciso dagli uomini. Questo aspetto dell’uccisione, del sacrificio, chiarissimo nel testo nietscheano, è stato misconosciuto dagli interpreti. Nietzsche aveva ben compreso come l’umanità sia sempre stata regolata dal meccanismo vittimario, e come nel suo profondo la tradizione giudeo-cristiana vi si opponga: da qui la sua avversione verso il Cristianesimo (che egli unifica poi al platonismo, il che è stato in parte fuorviante sia per lui che per i suoi successori). Nietzsche vorrebbe tornare al mondo della religiosità pagana, in cui le vittime erano rese tali senza alcuna pietà. Il suo è, in profondità, un discorso antropologico, non metafisico o antimetafisico, ovvero è quest’ultimo solo in seconda istanza.
Nessuna “dimostrazione” in filosofia è definitiva. Il “come hanno dimostrato” suona sempre appello ad auctoritates… Veramente, ci sono alcuni oggi che ritengono la follia di Nietzsche non separabile dal senso profondo della sua filosofia. Ad esempio René Girard, Giuseppe Fornari, e nel suo piccolo anche il Brotto. Comunque, la follia di Nietzsche non è usata da costoro a smentire la validità teorica delle sue affermazioni, come qualcuno fece in passato, ma per mostrarne la tragicità (cosa che in fondo piacerebbe allo stesso Nietzsche, il quale non avrebbe mai accettato che la follia di un pensatore non avesse alcunché da spartire col suo pensiero).
Il mondo della verità è il mondo del segno, che è fondamentalmente parola, ma anche gesto e cenno. La verità riguarda dunque solo gli umani nel loro essere nel mondo. E primordialmente è sperimentata già dal bambino nel momento in cui vive la prima relazione tra il significante e il significato come attuantesi o non attuantesi: mamma, e il seno col latte; così come può sperimentare la non-verità: mamma, e un succhietto di gomma che non conforta. Dunque il segno come compossibilità di verità e non-verità. Sono fondate insieme.
Il luogo della verità è perciò la relazione interumana: nel flusso dei segni che unisce gli umani si conosce la stabilità dell’essere altro da sé come distinto e indipendente ma insieme tanto umano quanto il sé. Il segno che rende umani gli umani dice anzitutto la verità della loro reciproca presenza di umani, e su questo fondamento ogni ulteriore verità posa.
Non dico che la verità è il segno, ma che il suo mondo è quello del segno. Ciò significa che essa per noi umani abita il mondo dei segni. Ma non si riduce ad essi.
Se si sostiene, poi, che il mondo dei segni è il mondo del potere, potrei essere d’accordo, se si fa coincidere l’umano, cioè la sfera del segno il cui piano “verticale” trascende il piano “orizzontale” delle pulsioni e degli appetiti puramente animali, con il potere stesso. Poiché anche gli umani più critici delle modalità in cui il potere viene esercitato dagli e sugli uomini, come Gesù, sono rimasti entro l’orizzonte del segno. Tanto che gli stessi miracoli, che sono gesti e operazioni, vengono chiamati “segni”.
Ma io non penso che esista solo la sfera del segno. Per questo facevo l’esempio del bambino e del latte materno. C’è la datità dell’esperienza, c’è l’immediatezza ancora-non-significata, ci sono le realtà brute, ecc. C’è, se si vuole, la nuda vita, il dolore insoffribile. C’è anche tutto quello che abbiamo in comune con gli animali. Ma ciò che ci rende umani è il segno. Quello con cui ci comunichiamo il nostro reciproco riconoscimento come umani.
C’è una grande difficoltà del pensiero comune contemporaneo, che sembra incapace di fissare la differenza essenziale tra l’animale e l’uomo. Come ho già detto, questa differenza è istituita dal segno, che è ben diverso dai “segnali” con cui comunicano gli animali, e che consente la nascita della cultura, che gli animali non possiedono.
Come tutti sanno, i rapporti tra gli animali all’interno di una stessa specie sono regolati dal cosiddetto pecking order, che è stato osservato per la prima volta tra le galline: in un gruppo, il più forte “becca” tutti gli altri, e non è beccato da nessuno, il secondo è beccato dal primo e becca tutti gli altri, fino ad arrivare all’ultimo nella gerarchia, che è beccato da tutti e non può beccare nessuno. Il criterio discriminante è la forza. Una spietata legge gerarchica domina le relazioni tra gli animali. Ma insieme consente che non si giunga mai alla violenza indifferenziata, ma semmai solo a uccisioni mirate. E’ tuttavia chiaro che tra gli animali non esistono diritti né doveri (e non è un caso che l’animalismo possa parlare solo di diritti degli animali, non di doveri, che sono pensati dall’uomo per l’uomo. Come pensare infatti i diritti reciproci di predatori e prede?).
Con la comparsa dell’umano, si ha una rottura del pecking order, esso non basta più, e la specie potrebbe collassare nell’autodistruzione. Per questo l’antropologia generativa attribuisce la nascita del primo segno, con cui l’umano fa la sua comparsa, ad un atto di rinuncia, un atto di differimento di quel tentativo di impossessarsi di una preda che scatenerebbe nel gruppo proto-umano, in assenza appunto di un pecking order, la violenza indifferenziata. Questo significa che noi umani avremo sempre la tendenza alla violenza e insieme la possibilità di differirla, mediante lo scambio reciproco di segni, che sono gesti e parole, il dialogo e lo scambio. Per questo ogni interruzione dello scambio allude sempre alla possibile violenza.
Ma il perdere il senso della differenza (di tutte le differenze) è un portato della cultura “vittimaria” che si è diffusa in Occidente dopo la seconda guerra mondiale, per cui il concetto di “vittima” è stato esteso dalle minoranze umane perseguitate agli animali, e perfino alle piante. E tutti vogliono essere dalla parte delle vittime, quando non si proclamano vittime essi stessi. Comprenderne le origini storiche è fondamentale per un pensiero che voglia mantenersi razionale.
Fabio scrive:
Il mondo della verità è il segno (…) C’è una grande difficoltà del pensiero comune contemporaneo, che sembra incapace di fissare la differenza essenziale tra l’animale e l’uomo.
Due cose, e ci provo, mi premono di tracciare. Di verità oggettivanti esiste solo il dato in matematica, e spesso anche in essa la verità è falsata. Oggettivamente I + I = II, quindi sul piano del segno e significato e significante dovremmo esser nella verità.
V. Mancuso sta tentanto, non saprei se ci riesce, una nuova sintesi teologica, mica tanto poi originale.
F. Cardini osserva che “in Italia si comprano tanti libri, ma si legge poco” è una verità statistica: se fossimo migliori lettori l’Italia forse potrebbe intraprendere la strada della laica Francia, forse. Nel linguaggio d’un teologo come Mancuso, come Ratzinger, come Kung, come Barth, come Woytila, come Juan Yepez y Alvarez vi sono almeno due eredità, il dato biblico (che è sempre archetipico) e il lessico dello scrittore. Di questi autori citati solo due sono originalissimi (non sto a scrivere chi sia, perchè vorrei – mia pia illusione – che parti teologiche di tutti fossero conosciute da chi si dice cristiano).
Fabio conclude scrivendo che “Comprenderne le origini storiche è fondamentale per un pensiero che voglia mantenersi razionale” ma il bello è che quando s’affrontano argomenti che vogliono a tutti i costi dimostrare la verità si rischia l’irrazionalita, il paradosso e quindi l’assurdo, e dall’assurdo agli “ismi” aimé il passo è sin troppo corto.
Grazie d’avermi letto.