Penso che ci sia gnosi in Cristina Campo. Per gnosi intendo ogni posizione che postuli come unica possibilità di salvezza dello spirito un atto di conoscenza. Perché vi sia gnosi in senso proprio occorre, dunque, che sia concepita una salvezza, e che questa sia una salvezza dello spirito in quanto contrapposto al non-spirito. La gnosi nella Campo è moderata (dal suo cattolicesimo), mentre Simone Weil è una catara, senza dubbio alcuno. Secondo me, c’è una linea catara non interrotta che giunge fino ai nostri giorni, e che emerge in persone e scrittori anche molto distanti. Un mio caro amico ora morto, Alberto Gallas, che è stato uno dei più profondi conoscitori italiani di Kierkegaard, era d’accordo con me nella definizione del grande danese come “cataro protestante”. Nessuna teoria che ponga la salvezza sul piano dell’ordine puramente mondano, e la faccia scaturire da una prassi, può essere definita gnostica.
Ciò che salva il Cristianesimo dal precipitare nella gnosi è la piena umanità di Gesù. Il Figlio dell’Uomo che si occupa del mangiare anche dopo la resurrezione (Vangelo di Giovanni, il più spirituale, 21).
Io, peraltro, penso che una accettazione “solare” della carnalità non possa essere davvero pienamente cristiana. “Solare” mi sa di paganesimo (dove la luce copre la pratica sacrificale sottesa ad ogni relazione). La carnalità è cristianamente accolta nel suo essere vulnerata dal peccato, soggetta al disfacimento, soggetta al divenire, e in ultima analisi polvere. Polvere amata e resa vivente.
La gnosi implica sempre che vi sia una trasformazione radicale della vita del soggetto che viene illuminato dalla conoscenza. Basta aver a che fare con qualche scienziato contemporaneo per rendersi conto che scienza e riflessione sulla scienza non sono la stessa cosa. E a maggior ragione tra attività scientifica e vita vi è un baratro. Spesso gli scienziati quando ragionano di varia umanità risultano penosi, e spesso, anche quando brillanti nel loro campo, risultano estremamente poveri dal punto di vista umano. Ne ho conosciuti molti, soprattutto fisici. Alas! Le loro vite private erano regolarmente fallimentari. Ciò nulla toglie al valore conoscitivo della fisica. Infatti la fisica contemporanea non è gnostica.
Il dibattito che periodicamente si accende in Italia sulla cultura scientifica e i suoi nemici è viziato da mancanza di chiarezza concettuale. L’esperimento scientifico è sempre affascinante (ma il suo essere affascinante non è un dato scientifico in sé) e portatore di conoscenza. Conoscenza settoriale. Ne ho fatti anch’io, nel mio piccolo, anni fa, da ragazzo, studiando la chimica del veleno delle formiche (soprattutto della specie myrmica ruginodis e lasius fuliginosus). Tuttavia la scienza di per sé esclude le qualità e tende al quantitativo. Non esiste una formula della bellezza come esiste una formula del veleno della myrmica (simile a quella del veleno della vipera,tra l’altro, se ben ricordo). Pure, la bellezza esiste, e ne facciamo esperienza continuamente. Per gli umani è fondamentale. Non solo, ma la valutazione dei risultati della scienza, e le decisioni sul che farne, su come applicarli, non hanno alcuna scientificità. E, per finire, se io dovessi lodare la scienza perché ha consentito a mia zia di arrivare a 84 anni e continuare a vivere ridotta ad una larva nel suo letto, mentre in passato sarebbe morta da un pezzo, rimarrei su un miserevole piano quantitativo. Meglio morire in battaglia, o ucciso da un orso durante una caccia, da uomo, che infermo nel letto vecchio e impotente, peggio di una squaw! Dovrei allora anche accusare la scienza perché la minaccia di sparizione della vita dalla tutta la terra è oggi molto più grave che in passato…
Personalmente, ritengo che un dibattito simile sia tedioso e assurdo, e che la scienza sia oggi intrecciata col potere economico, politico e militare in un modo tale che ancora una volta risulta chiaro come il problema fondamentale per gli umani sia quello della violenza, il problema che le religioni da sempre cercano di controllare e che la scienza neppure si pone. Essendo però in grado di aumentare di molto l’efficacia delle armi.

Non ritrovo in questo pezzo la tua consueta limpidezza: la mancata distinzione fra il piano delle dinamiche sociali su cui le attività scientifiche (come quelle sacerdotali etc) invariabilmente si innestano, ed il piano dell’oggetto stesso della loro ricerca (la Natura, nel senso più ampio e potenzialmente onnicomprensivo) ti conduce ad alcuni “non sequitur”. Per esempio, addossare alla scienza la scelta culturale di mantenere in vita i vecchi ad oltranza: è evidente che essa saprebbe confezionare altrettanto bene degli efficacissimi mezzi di eutanasia. Anche la pretesa predilezione della scienza per il numero, o per l’esperimento “ripetibile”, mi sembra alquanto superficiale, prendendo le caratteristiche di qualche sua parte o settore per proiettarle “fisiognomicamente” sul tutto. In realtà spesso si ricorre all’astrattezza del numero soltanto perché la complessità dei fenomeni in esame non lascia aperte altre vie, come negli approcci probabilistici. Ma non appena si apre uno spiraglio modellistico esso viene evidentemente colto. Quanto alla ripetibilità, si tratta di un’altra caricatura: le collisioni al sincrotrone sono certamente “ripetibili”, ma quanto ci hanno rivelato su di un evento “unico”, almeno per noi, come il Big Bang? E’ chiaro che vi è un abisso tra le spiegazioni scientifiche ed i quadri cognitivi, irriducibilmente intrisi di estetismo e sentimentalità, della Campo o della Weil. Né le prime tolgono ai secondi diritto esistenza, anche se soltanto (non lo affermo, soltanto lo sospetto) come farmaci palliativi nei confronti di talune raggelanti evidenze.
Avevo scritto che “la valutazione dei risultati della scienza, e le decisioni sul che farne, su come applicarli, non hanno alcuna scientificità”, quindi mi pare di aver chiara la distinzione tra scienza e sua applicazione. E’ evidente che la scienza “consente” al vecchio di sopravvivere miserevolmente, non ho mica scritto che lo obbliga. Ma se la distinzione è chiara formalmente, nella realtà la commistione è evidente.
Non ho parlato di “ripetibilità”, mi pare.
Quanto alla “predilezione per il numero”, questo è un dato indiscutibile della scienza occidentale moderna fin dal suo sorgere. Non è un fatto di “predilezione”, è costitutivo. La scienza occidentale moderna nasce quando la matematica viene assunta come modello di ogni sapere valido.
Vorrei infine sapere quali sarebbero le “raggelanti evidenze”. Personalmente, non ne conosco una più raggelante della coscienza di dover morire, dell’essere polvere e in polvere essere destinato a ritornare. A meno che dietro le tue parole non vi sia, come sospetto, una trasformazione di “dati scientifici” in visione metafisica. Cosa che capita spesso agli scienziati.
La ripetibilità mi pareva invocata dal tuo accenno all’esperimento, che mi richiama una classica obiezione alle “Naturwissenschaftes”. Che la scienza “vera e propria” (se distinguibile dalle tante proto-scienze) sia iniziata dalla fisica, cioè dagli aspetti del mondo più facilmente matematizzabili, potrebbe anche rappresentare una sorta di “innesco obbligato” disegnato dallo spazio delle possibilità, che comporta il pedaggio di un certo strascico di natura storica, ma non vi è nulla di “costitutivo” nella scienza che vieti delle evoluzioni cognitive in senso “qualitativo”, qualora esse si rivelino feconde. Per me il qualitativo già sopravanza di gran lunga il quantitativo, anche la matematica è assai più “intelligenza di forme” che non “number crunching”. Ma credo che a forza di distinguo raggiungeremmo un sostanziale accordo su simili questioni.
Rimane invece qualcosa di più sfuggente: il tuo pezzo parla di “salvezza”. Ma da che cosa? Dalla morte intesa come annientamento totale dell’individuo? Io direi che è questo il vero punto, ma mettiamo pure che non sia questo il problema, ma bensì – più altruisticamente, con posa più sprezzante – il Male, la Sofferenza che c’è nel mondo. Ora se si ammette un Dio, od un principio superiore, più o meno astratto, più o meno antropomorfizzato, a lui vanno la responsabilità e la gloria del tutto. Ma in questo caso non vi è neppure spazio per nostalgiche preoccupazioni: tutto “il buono” evidentemente si sussume e si conserva integralmente in un simile Essere – il resto avrà semplicemente il destino che merita. Certo, chi ammette una tale fantastica costruzione può poi continuare ad immaginare che cosa Egli voglia realmente da noi, quali prove intenda farci superare eccetera: può anche essere una prospettiva utile, adattativamente favorevole.
E’ comunque in questo spazio che mi sembrano respirare i fascinosi lambiccamenti della Campo e della Weil. La scienza però ci racconta un’altra storia: quello che siamo è frutto di tempi lunghissimi, che sballano completamente la nostra prospettiva cognitiva, e di eventi arbitrari, e soprattutto di una piramide enorme, raccapricciante, di sofferenza. E’ questa che ha inciso dentro materia fattasi sempre più sensibile, le linee che tanto ammiriamo, è questa che ha costruito attraverso sviluppi graduali punteggiati forse a salti qualitativi, anche la nostra miracolosa “anima”: dunque il Male non può essere separato dal Bene, e se un Essere Superiore, in qualche modo, davvero c’è, è difficile pensare che Egli abbia “umanamente” a cuore i nostri destini individuali, o in altre parole che noi tutti si sia realmente chiamati a fare qualche cosa in questo mondo. Perché se gli obiettivi ce li diamo soltanto noi stessi, questo ci ripiomba su di un piano incomparabilmente più rilassato: “ma perché ti agiti tanto?” comincerà forse a sussurrare Satana al nostro orecchio, “a chi stai cercando di piacere? Chi stai cercando di imitare?”, per finire, abbastanza spesso, nel Crowleyiano “Fa ciò che vuoi”.
Resta la mia obiezione fondamentale allo scientismo, ovvero alla scienza che si fa visione del mondo e diviene o ideologia, o metafisica, o entrambe, senza sapere di esserlo. La scienza che “ci racconta un’altra storia” è una produzione culturale umana, non meno né più della religione o della filosofia. La mia scelta di quella storia come preferibile è un atto in sé non scientifico. D’altra parte anche l’idea che solo la scienza fornisca un modello di sapere valido, ovvero che ci faccia conoscere la “vera realtà delle cose” non è scientifica, si colloca su di un altro piano. Infatti la scienza non comunica, di per sé, la vera realtà delle cose, ma si limita alla spiegazione dei fenomeni. Secondo me tu, Elio, stai elaborando il tuo lutto per la caduta dell’universo mitico-religioso di fronte alla scienza. Cosa che molti hanno già fatto, come Leopardi, tanto per citarne uno.
Quanto al piano teologico, che evochi, penso che da un lato occorra liberarsi da una visione antropomorfica di Dio, dall’altro assumerne una antropologica. Ma il discorso qui si fa troppo ampio.
“omnia in mensura et numero et pondere” credo sia stato detto da Galileo. E se non l’ha detto lui, vale lo stesso.
Pur senza essere all’altezza delle vostre discussioni filosofiche, mi ci sento dentro fino al collo, come medico. Che i numeri siano indispensabili, è un dato di fatto. E credo che sia un oggettivo passo avanti poter fare diagnosi di diabete, leggendo un referto che quantifica in 167 milligrammi per decilitro il tasso di glucosio nel sangue, piuttosto che assaggiare l’urina del paziente e riconoscervi un sentore dolciatro simile al miele (diabete mellito…).
La cosa difficile è dare ai dati numerici, così come alle sensazioni soggettive, il loro giusto significato.
Ma forse la medicina ha un posto un po’ a parte tra le discipline del sapere umano.
Osler, un grande medico americano del XIX secolo, disse: “se non fosse per il fatto che i malati e i medici sono persone una diversa dall’altra, la medicina sarebbe una scienza; e non un’arte”
Tornando alla Scienza e ai numeri, sarebbe utile ricordare che non sempre essi “spiegano i fenomeni”; secondo il grande Karl P. dovremmo addirittura essere certi che primo o poi arriverà una smentita, o almeno un superamento di quello che oggi ci pare “vero”.
L’ha ribloggato su Brotture.