Aprire Delfi? Far sì che almeno una parte degli studenti delle ultime generazioni abbia accesso al mondo della cultura alta, e non sia relegata in sub-culture più o meno impermeabili tra loro, tutte assoggettate agli idola fori della società mediatizzata e bloccata in cui viviamo? Una missione quasi impossibile, in cui oggi non crede quasi nessuno, a cominciare dai sommi gradi. Soprattutto se ne vengono incaricati i professori. Centinaia di migliaia di persone, questi, una massa, in grande maggioranza donne: persone per la maggior parte smarrite, depresse, senza prospettive al di fuori di un’agognata pensione che appare insufficiente, insicura, inadeguata (tre i molto più reali di quelle brichettian-berlusconiane tanto sbandierate un tempo, e oggi cadute nell’oblio), e purtroppo spesso anche lontana nel tempo. Il dislivello tra la retorica degli apparati e la realtà cruda della vita scolastica è diventato così grande da presentarsi oggi come vicino alla condizione di assolutezza. Penso che ciò dipenda in larga parte dall’asfissia intellettuale che ha colpito le classi dirigenti, in Italia forse in forma più grave rispetto al resto dell’Occidente. Sarebbe pudico della scuola tacere, e pensare, ed invece se ne parla, e non si pensa, mentre essa sta crollando, insieme all’università. L’enorme quantità di discorsi e discorsetti, un chiacchiericcio che si diffonde dovunque, copre l’immenso silenzio delle idee, il loro abissale nulla.
Nell’ultimo libro di George Steiner che ho letto, La lezione dei maestri (Lessons of the Masters, trad.i it. di F. Santovetti e S. Velotti, Garzanti, Milano 2004), si coglie il dramma di un passaggio epocale che per la prima volta pone in questione il fondamento della trasmissione del sapere nel rapporto diretto, nel vivente faccia a faccia tra maestro ed allievo. Perché, come scrisse Yĕhūdāh ha-Lēwī ne Il re dei Khàzari (Kūzārī, 1140 circa, trad. it. E. Piattelli, Boringhieri, Torino 1991),
… lo scopo del linguaggio è che ciò che sta nell’animo di colui che parla entri nell’animo di colui che ascolta; e questo scopo non si raggiunge interamente se non faccia a faccia; perché le parole dette sono superiori a quelle scritte; e come dissero i nostri savi: “dalla bocca dei savi, e non dalla bocca dei libri” … (p. 113)
Bisogna però che i savi esistano. Nella società dei consumi di massa non vi sono luoghi della sapienza, ma solo competenze e conoscenze settoriali. Non vi sono savi, ma esperti o, nel caso migliore, studiosi.
Non vi è alcun dubbio sul fatto che la stragrande maggioranza dei professori sia inadeguata al proprio ruolo. Forse l’abolizione, alcuni anni fa, col governo di Sinistra se non ricordo male, del ruolo, aveva una valenza metaforica potentissima, che alla categoria degli insegnanti è sfuggita. Ma è anche probabile che la mia affermazione sia viziata da una logical fallacy, una fallacia logica del tipo del falso bersaglio, ovvero straw man argument (cfr. http://www.fallacyfiles.org/strawman.html ), per cui ci si costruisce un nemico facile da abbattere, che però non è quello reale, assai più coriaceo. Infatti, la proposizione “la stragrande maggioranza dei docenti è inadeguata al proprio ruolo” dà per scontata la condivisione di una certa idea circa il ruolo. Ed è proprio questo che oggi è estremamente problematico. Io penso che il ruolo dovrebbe essere quello di aprire Delfi. Una Delfi, minimale, certo, e il successo di questa azione potrebbe essere misurabile, ad esempio, con l’aumento dei lettori in questo Paese. E invece, come abbiamo detto altrove, il numero dei libri letti in Italia resta basso, e tutti pensano che la scuola non formi lettori, che anzi addirittura scoraggi la lettura. Scrive George Steiner, nel libro sopra citato:
Il mestiere del “professore”, un termine in qualche misura di per sé opaco, abbraccia ogni sfumatura possibile tra gli estremi di una vita di routine, disincantata, e un esaltato senso di vocazione. È un termine che comprende diverse tipologie, da quella del pedagogo distruttore di anime a quella del maestro carismatico. (p.9)
L’espressione pedagogo distruttore di anime mi piace pazzamente. Intanto perché associa il termine pedagogo—che rimanda alla facoltà di Pedagogia, ai Vertecchi e Codignola et ceteri—a qualcosa di orribile come la distruzione delle anime, operazione davvero satanica. Poi, perché fa riferimento alla cosa più preziosa dell’essere umano, a ciò che il totalitarismo in tutte le sue forme vuole annientare, l’anima appunto. Certo, io sono convinto che solo un’antropologia mimetico-generativa possa dare pienamente conto delle dinamiche che alimentano la relazione maestro-allievo, la cui natura presenta necessariamente un aspetto di ambiguità. Nessun rapporto tra umani, infatti, può sottrarsi alla mimesi, e non tener conto di questo dato essenziale porta a continui fraintendimenti: in tutti i docenti coesistono la tendenza ad e-ducare, a condurre fuori, a liberare l’anima dello studente, e la tendenza opposta a distruggere la libertà, a oggettivare il soggetto, conformandolo a modelli che non sono altro che incrostazioni ideologiche cui ci si appiglia per non naufragare, forme di autoconservazione, di autoattaccamento. Ogni genitore, d’altra parte, (anch’io lo sono) sa, con indefettibile sicuro sapere, che gran parte degli insegnanti sono scadenti. Tra le loro mani, infatti, ogni entusiasmo per la conoscenza si spegne, ogni possibile fervore si smorza. Essi si perdono nel marginale, nei dettagli, nella costruzione di edifici burocratico-pseudopedagogici, nell’inessenziale. Sono i profeti del grigiore, gli impiegati dello stato produttore di diplomi. Sono la stragrande maggioranza. Scrive ancora Steiner:
Insegnare seriamente è toccare ciò che vi è di più vitale in un essere umano. È cercare un accesso all’integrità più viva e intima di un bambino o di un adulto. Un maestro invade, dischiude, può anche distruggere per purificare e ricostruire. Un insegnamento scadente, una pedagogia di routine, uno stile di istruzione che è, consapevolmente o meno, cinico nei suoi obiettivi meramente utilitari, sono rovinosi. Distruggono la speranza alle radici. Un insegnamento di cattiva qualità è, quasi letteralmente, un assassinio e, metaforicamente, un peccato. Immiserisce lo studente, riduce a grigia inanità la materia insegnata. Insinua nella sensibilità del bambino o dell’adulto il più corrosivo degli acidi, la noia, le esalazioni dell’ennui. Un insegnamento morto, esercitato dalla mediocrità forse inconsciamente vendicativa di pedagoghi frustrati, ha ucciso per milioni di persone la matematica, la poesia, il pensiero logico. Gli schizzi di Molière sono implacabili.
L’anti-insegnamento è statisticamente quasi la norma. Insegnanti eccellenti, capaci di accendere un fuoco nelle anime nascenti dei loro allievi sono forse più rari degli artisti virtuosi o dei saggi. Maestri di scuola, allenatori di mente e corpo, consapevoli della posta in gioco, del rapporto tra fiducia e vulnerabilità, della fusione organica tra responsabilità e risposta (che io chiamerei «respondibilità», answerability) sono pericolosamente rari. Ovidio ci ricorda che «non c’è mistero più grande». In realtà, come sappiamo, la maggioranza di coloro ai quali affidiamo i nostri bambini nell’educazione secondaria, a cui guardiamo perché siano di guida e di esempio nell’accademia, sono becchini più o meno amabili. Faticano per immiserire gli studenti al loro livello di stanca indifferenza. Non «aprono Delfi» ma la chiudono. (pp. 24-25)
Nulla però uguaglia l’impudenza di coloro che pensano di essere atti all’insegnamento dell’insegnamento. Si sentono al passo coi tempi della téchne trionfante, possiedono la tecnica dell’insegnamento. Hanno fatto l’istituto tecnico per insegnanti. Sono in grado di prendere un giovane laureato in lettere, ad esempio, e di formarlo, facendone un nuovo insegnante. Sarebbe bello sentire l’opinioni degli allievi di quei formatori, gli studenti, dico, che per anni hanno seguito le loro lezioni, ammesso che ci siano state, e siano state davvero lezioni….
Lo sprezzo di Goethe per gli accademici era noto. “Chi può, fa. Chi non può, insegna”. Qualche buontempone moderno ha aggiunto: “Chi non sa insegnare, insegna a insegnare”. (p.70)
insegnare bene è un mestiere difficile
saper trattenere l’attenzione di chi ascolta, un’arte.
Ciao Fabio, sempre interessante passare da te…
C.