Giaceva nel letto in uno stato comatoso, troppo insensibile per alzarsi a sedere o anche soltanto per pensare. Il sole calò e nascose il volto dietro l’orizzonte. I corvi gracchiarono e volarono via. I passeri tornarono ai loro nidi. La notte si avvicinò in fretta, a grandi passi, lasciando una scia di silenzio, e ricoprì gli imperi del mondo con il suo manto di tenebra e desolazione. (p. 289)
Questa sequenza potentemente lirica chiude il romanzo di Ahmed Ali Crepuscolo a Delhi (Twilight in Delhi, 1940, trad. it. e postfazione di V. Mingiardi, Neri Pozza Editore, Vicenza 2004). Si può leggerlo da differenti punti di vista, anche come documento di una fase storica dell’India, come emblema di un incontro di due mondi culturali, della difficoltà di essere un uomo con due matrici, ecc. A me di Ahmed Ali piace la vena elegiaca, la continua evocazione della vanità delle cose, il senso dell’inesorabile tendenza di tutto a finire. Mi piace anche il quadro di una vecchia Delhi in cui fioriscono attività del tutto sottratte alla presa dell’utile, come l’allevamento e l’addestramento di colombi da parte di molti abitanti, con gli stormi che si librano a gara nel cielo sopra la città, seguendo ciascuno gli ordini del proprio addestratore, che cerca di attrarre e inglobare anche uccelli altrui nel proprio stormo, accrescendolo a spese degli altri. Spettacolo mirabile, e conflitto continuo in cui la rivalità si estetizza. Come nelle gare di aquiloni, che anch’essi dai tetti si levano nel cielo, e confliggono, ciascuno guidato ad abbattere gli altri. Ove si vede che le forme più liberamente estetiche di fruizione del tempo tra gli umani si possono sottrarre al dominio dell’economico (in parte), ma mai a quello della mimesi conflittuale.
Le donne del romanzo sono soggette alla legge del parda, ovvero, confinate in una parte della casa, possono mostrarsi solo ai parenti più stretti: è una Delhi islamica nella quale la vita si svolge in un modo che non dispiacerebbe molto ad un fondamentalista odierno. E tuttavia, comandino i mughal o i sayyed o i farangi, il vero signore è l’ineluttabile tempo.
Mir Nihal tornò a casa con il cuore colmo di tristezza, consapevole della natura vana ed effimera del mondo. Ma formidabili sono le devastazioni del Tempo, e nessuno può opporsi alla sua forza inarrestabile. I re muoiono, le dinastie cadono. Passano secoli e millenni, e mai un sorriso illumina l’imperscrutabile volto del Tempo. La vita procede con spietata continuità, e, sempre alla ricerca del nuovo, schiaccia mondi e ideali sotto i suoi talloni crudeli; distrugge, ricostruisce e demolisce di nuovo con la capricciosità dissennata di un fanciullo che innalza un castello di sabbia solo per raderlo al suolo… (p. 165)