Un mondo a parte

 1961983Un mondo a parte (1951, trad. it. G. Magi riveduta dall’aut., Feltrinelli, Milano 1994, 2003) è uno dei grandi libri sull’universo concentrazionario del totalitarismo novecentesco. Per intensità, durezza e altezza della scrittura sta con Levi, Solženicyn e Šalamov. In Italia è stato colpevolmente ignorato per decenni (anche in Francia, potenza dell’intellettualità filocomunista). Forse più ancora degli altri testi famosi, questo ha una misura ed un ritmo tali da farne un classico. Riporto un passo che riguarda la condizione delle donne nei lager sovietici.

«A giudicare da quel che ho visto nel campo, gli uomini sop­portano la fame, sia fisica sia sessuale, molto meglio delle donne. Secondo gli elementari principi di etica del campo, coloro che giungevano a vincere la resistenza di una donna privandola del cibo, soddisfacevano i suoi due fondamentali bisogni, quando alla fine ella cedeva. Se, richiamando alla mente tutto ciò che è accaduto in Europa durante l’ultima guerra, si vuole intenderne il significato, occorre dimenticare i principi della morale corren­te nella seconda metà del XIX secolo e nelle prime decadi del XX, sui quali si fondava la vita dei nostri nonni e dei nostri padri: epoca quella che parve realizzare il mito positivistico del pro­gresso. Un marxista ortodosso direbbe che non esiste una mora­le in senso assoluto, perché l’esperienza individuale è condizionata dalle circostanze materiali: il che significa che ogni epoca, ogni paese e ogni classe sociale crea la morale propria, o che questi tre fattori uniti creano quella che potremmo chiamare la legge non scritta della condotta da seguire in determinate situa­zioni. Le esperienze degli ultimi vent’anni in Germania e nella Russia sovietica danno una notevole conferma a questa teoria. In questi due paesi si è sperimentato che, quando il fisico di un uomo ha raggiunto il limite estremo di resistenza, non si può più contare, come si riteneva prima, sulla forza di carattere e sul rispetto dei valori spirituali; non c’è nulla in realtà che l’uomo non possa esser indotto a fare dalla fame e dalla sofferenza fisi­ca. Questa “nuova morale” non è un codice di condotta onesta, poiché trova il suo fondamento nella convenienza delle azioni, e sebbene le sue zanne oggi siano cresciute aguzze e pericolose, le sue origini vanno riportate all’Inquisizione spagnola, che fece spuntare quei denti. Non dobbiamo respingere con leggerezza questo dato di fatto. L’antica morale della chiesa cattolica e la nuova morale del sistema sovietico hanno in comune la convin­zione fondamentale che l’uomo privo di fede — fede nel sistema rivelato dei valori spirituali nel primo caso, o nel sistema impo­sto dei valori materiali nel secondo — è un mucchio informe di rifiuti. La rivoluzione di Lysenko nel campo della genetica ha in­vertito radicalmente i principi basilari della chiesa cattolica. Per quest’ultima l’uomo si perde nel vortice del peccato e della dan­nazione se non viene salvato dalla luce della grazia soprannatu­rale; secondo il credo materialistico l’uomo è quello che foggia­no artificialmente le circostanze. Ma l’uno e l’altro sistema privano l’uomo della propria volontà; dalla formula adottata per stabilire la ragion d’essere di un uomo sulla terra, dipende se il mucchio dei rifiuti produrrà l’esemplare voluto dalla coltivazio­ne biologica, o il fiore benedetto dell’anima umana. Io non sono tra coloro che per l’esperienza degli orrori della guerra hanno fi­nito con l’ammettere la “nuova morale”, e nemmeno tra quelli che in tali orrori scorgono ancora una prova dell’impotenza umana di fronte al prevalere di Satana. Sono giunto al convinci­mento che l’uomo può essere umano solo in condizioni umane, e considero assurdo il giudicarlo severamente dalle azioni che egli compie in condizioni disumane, come sarebbe assurdo mi­surare l’acqua dal fuoco, e la terra dall’inferno. E la difficoltà, per uno scrittore che intenda descrivere obiettivamente un cam­po di lavoro sovietico, è ch’egli è costretto a scendere nelle profondità dell’inferno dove non è possibile trovare ragioni umane che spieghino azioni disumane. E di laggiù i volti dei suoi compagni morti e di quelli forse ancora in vita guardano a lui, e le loro labbra, livide di fame e di freddo, sussurrano: “Rac­conta tutta la verità su di noi, di’ che cosa siamo stati costretti a fare”.
In difesa delle donne va detto che la morale del campo, co­me ogni altro sistema di valori, aveva la sua ipocrisia. Così, per esempio, a nessuno sarebbe passato per la mente di biasimare un giovane se, per migliorare la sua situazione, diventava l’amante dell’anziana dottoressa dell’ospedale, ma la graziosa ra­gazza che si dava per fame al vecchio ripugnante addetto al de­posito del pane, era naturalmente una prostituta. Non furono mai considerate immorali le regolari denunzie mensili alla terza sezione alle quali quasi tutti i brigadieri e i periti tecnici ricorre­vano per fare le proprie vendette personali; ma una donna che lasciava di notte il recinto per andare a letto col comandante del campo era considerata una prostituta, e della peggior specie, per aver infranto la solidarietà dei prigionieri contro gli uomini libe­ri. Era normale che un prigioniero appena arrivato consegnasse al suo brigadiere gli ultimi resti dei suoi abiti borghesi per otte­nere una buona classifica di rendimento nel lavoro (su questa base si stabilivano le razioni quotidiane per ogni prigioniero); ma c’era chi si scandalizzava se una ragazza senza un soldo, cur­va sotto il peso di un’ascia nella foresta, dava a quello stesso bri­gadiere la prima o la seconda sera del suo arrivo nel campo l’unica proprietà terrena che le restasse: il suo corpo. Un prigio­niero colto in flagrante nell’atto di rubare il pane a un a1tro, sa­rebbe con ogni probabilità morto in conseguenza della punizio­ne inflittagli dagli “urka”, che erano i supremi legislatori e giudi­ci della morale del campo; ma tra i polacchi c’era un certo prete che occultava la dignità pastorale sotto gli stracci di prigioniero e che per confessare e dare l’assoluzione fissava il prezzo di 200 grammi di pane (100 grammi di meno del vecchio uzbeco che leggeva la fortuna sulle mani), eppure viveva tra i suoi fedeli in odore di santità.
L’origine di questo fenomeno complesso e oscuro è nel desi­derio inconscio, che esiste in ogni vasta comunità, di esporre alla censura della “pubblica opinione” i trasgressori colti sul fatto, per poter imbiancare la propria coscienza a poco prezzo. Le donne si prestavano benissimo a servire da capri espiatori, non solo perché di rado avevano da vendere qualcos’altro che il pro­prio corpo, ma anche perché persino nel campo portavano su di sé il peso della morale convenzionale vigente nel mondo ester­no, secondo la quale l’uomo che possiede una donna dopo un breve corteggiamento è un brillante seduttore, ma la donna che si dà a un uomo appena conosciuto è di facili costumi.» (p.151 sgg.)

2 pensieri su “Un mondo a parte

  1. Ciao prof. sono certa che lo andrò a cercare questo libro perchè si capisce che è scritto bene e perchè non è facile trovare un pensiero così onesto, egualitario e profondo in un uomo, specialmente di quel periodo storico.
    La morale avrà sempre un doppio peso e una doppia misura a seconda del luogo e delle circostanze, tanto più questo vale per la donna che ha sempre subito un controllo coercitivo costante da parte del maschio che l’ha sempre considerata una proprietà priva di autonomia e inviolabile.
    Non è da molto tempo che nella nostra civilissima Italia è stato abolito il delitto d’onore riguardante naturalmente solo l’onore dell’uomo.
    Caro prof. stai mandando dei messaggi letterari che toccano le corde più sensibili del mio essere e questo mi fa molto piacere poichè so che sei seguito anche da tanti uomini che mi auguro riflettano e, se ancora non l’hanno fatto, cambino il loro modo di essere uomini nei confronti dell’altra metà del cielo. Buona e fresca serata Franca

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