Da Eros Barone ricevo questa lettera marxista.
Il crimine come forza produttiva
È l’esistenza stessa della proprietà privata che determina l’ineluttabilità della sua violazione e quindi della sua difesa. Un giorno sarà ineluttabile anche il suo superamento, ma per ora è la sua difesa che diventa un elemento produttivo tra altri. “Elogio del crimine”, Edizioni Nottetempo, è il titolo di un libretto basato su un testo di Marx e commentato da Andrea Camilleri, noto scrittore di romanzi ‘gialli’.
In questa società il crimine produce diritto e casseforti, giudici e scassinatori, sbirri e letteratura, ‘hardware’ e ‘software’; alimenta la produzione di merci e servizi, assorbe manodopera in esubero del ciclo industriale, produce valore aggiunto e quindi fa aumentare il sacro Pil. I fautori della “sicurezza”, da Bossi a Veltroni, non dovrebbero lamentarsi: il crimine è progresso.
Riporto, pertanto, a beneficio e (spero) godimento dei lettori, tratto dal cosiddetto quarto libro del “Capitale”, intitolato “Teorie sul plusvalore”, uno dei passi più brillanti, caustici e paradossali che siano mai usciti dalla penna di Karl Marx, impegnato, si badi, a satireggiare uno dei più volgari luoghi comuni dell’economia politica borghese, ossia “la concezione apologetica della produttività di tutte le occupazioni”:
«Un filosofo produce idee, un poeta poesie, un pastore prediche, un professore manuali ecc. Un delinquente produce delitti. Se si esamina più da vicino la connessione che esiste tra quest’ultima branca di produzione e l’insieme della società, ci si ravvede da tanti pregiudizi. Il delinquente non produce soltanto delitti, ma anche il diritto criminale, e con ciò anche il professore che tiene lezioni sul delitto criminale, e inoltre l’inevitabile manuale, in cui questo stesso professore getta i suoi discorsi in quanto “merce” sul mercato generale. Con ciò si verifica un aumento della ricchezza nazionale, senza contare il piacere personale, come [afferma] un testimonio competente, il professor Roscher, che la composizione del manuale procura al suo stesso autore. Il delinquente produce inoltre tutta la polizia e la giustizia criminale, gli sbirri, i giudici, i boia, i giurati ecc.; e tutte queste differenti branche di attività, che formano altrettante categorie della divisione sociale del lavoro, sviluppano differenti facoltà dello spirito umano, creano nuovi bisogni e nuovi modi di soddisfarli. La sola tortura ha dato occasione alle più ingegnose invenzioni meccaniche e ha impiegato, nella produzione dei suoi strumenti, una massa di onesti artefici.
Il delinquente produce un’impressione, sia morale sia tragica, a seconda dei casi, e rende così un “servizio” al moto dei sentimenti morali ed estetici del pubblico. Egli non produce soltanto manuali di diritto criminale, non produce soltanto codici penali, ma anche arte, bella letteratura, romanzi e perfino tragedia, come dimostrano non solo “La colpa” del Müllner e “I masnadieri” dello Schiller, ma anche l’“Edipo” [di Sofocle] e il “Riccardo III” [di Shakespeare].
Il delinquente rompe la monotonia e la banale sicurezza della vita borghese. Egli preserva cosi questa vita dalla stagnazione e suscita quell’inquieta tensione e quella mobilità, senza la quale anche lo stimolo della concorrenza si smorzerebbe. Egli sprona così le forze produttive. Mentre il delitto sottrae una parte della popolazione in soprannumero al mercato del lavoro, diminuendo in questo modo la concorrenza tra gli operai e impedendo, in una certa misura, la diminuzione del salario al di sotto del minimo indispensabile, la lotta contro il delitto assorbe un’altra parte della stessa popolazione […].
Le influenze del delinquente sullo sviluppo della forza produttiva possono essere indicate fino nei dettagli. Le serrature sarebbero mai giunte alla loro perfezione attuale se non vi fossero stati ladri? La fabbricazione delle banconote sarebbe mai giunta alla perfezione odierna se non vi fossero stati falsari? Il microscopio avrebbe mai trovato impiego nelle comuni sfere commerciali (vedi il Babbage) senza la frode nel commercio? La chimica pratica non deve forse altrettanto alla falsificazione delle merci e allo sforzo di scoprirla quanto all’onesta sollecitudine per il progresso della produzione? Il delitto, con i mezzi sempre nuovi con cui dà l’assalto alla proprietà, chiama in vita sempre nuovi modi di difesa e così esercita un’influenza altrettanto produttiva quanto quella degli scioperi (‘strikes’) sull’invenzione delle macchine. E abbandoniamo la sfera del delitto privato: senza delitti nazionali sarebbe mai sorto il mercato mondiale? O anche solo le nazioni? E dal tempo di Adamo l’albero del peccato non è forse in pari tempo l’albero della conoscenza?
Il Mandeville, nella sua “Fable of the Bees” (1705), aveva già mostrato la produttività di tutte le possibili occupazioni ecc., e soprattutto la tendenza di tutta questa argomentazione: “Ciò che in questo mondo chiamiamo il male, tanto quello morale quanto quello naturale, è il grande principio che fa di noi degli esseri sociali, è la solida base, la vita e il sostegno di tutti i mestieri e di tutte le occupazioni senza eccezione […]; è in esso che dobbiamo cercare la vera origine di tutte le arti e di tutte le scienze; e […] nel momento in cui il male venisse a mancare, la società sarebbe necessariamente devastata se non interamente dissolta”. Sennonché il Mandeville era, naturalmente, infinitamente più audace e più onesto degli apologeti filistei della società borghese.»
Eros Barone
Mornago, 17 settembre 2007.
Sarà forse a seguito di una lettura e attenta meditazione di queste pagine marxiane che Stalin e la sua coorte di funzionari decisero che nei Lager lo status dei delinquenti comuni dovesse essere il più elevato, che essi dovessero essere trattati e nutriti molto meglio dei milioni di forzati “politici”, e reinseriti al più presto nella società socialista gioiosa e anti-filistea.
Il testo di Marx coglie, ironicamente, un punto importante della società odierna: che ripercussioni ci sarebbero, di carattere soprattutto economico, se, dall’oggi al domani, la criminalità scomparisse? I filosofi inglesi Hutcheson e Shaftesbury ne sarebbero ben lieti, poichè ritengono che la natura è divina armonia, in cui tutte le cose trovano il loro posto e la loro bellezza. Di diverso avviso Marx, sulla falsariga dell’altro filosofo inglese Mandeville, che vede la criminalità come motore sociale che sorregge quelle sovrastrutture ideologiche che le ruotano attorno: avvocati, giudici, poliziotti, carcerieri…tutti guadagnano e sopravvivono grazie all’esistenza della criminalità. In chiave economica è la stessa teoria de “La ricchezza delle nazioni” di Adam Smith. Questa teoria è ancor più efficace se si estende il concetto di “criminalità” non solo al delitto privato ma anche a quello pubblico: la guerra. Colbert a suo tempo disse: “Il commercio è la sorgente delle finanze e le finanze sono il nerbo vitale della guerra”. La criminalità non produce solo quello che oggi chiameremmo “business”, ma anche e soprattutto arte e letteratura. Questo è, a grandi linee, il contenuto del libro “L’assassinio come una delle belle arti” di De Quincey (citato dallo stesso Marx). Egli dice che sono le pulsioni e i sentimenti negativi che stanno alla base delle più grandi opere d’arte e letterarie della storia. Già Kant (nel testo “Antropologia pragmatica” e poi nella “Critica del giudizio”) trovava non nella bellezza, che scaturisce da un senso di armonia prodotto dalla convergenza di intelletto e immaginazione, ma nel sublime, ovvero il conflitto fra intelletto e immaginazione dinnanzi ad un fenomeno straordinario, il fondamento del così detto “genio artistico”. Tutte queste teorie, che verranno poi riprese da Schopenhauer e Leopardi, erano già state anticipate in un libro scritto nel ‘700 da Pietro Verri intitolato: “Discorso sull’indole del piacere e del dolore”, nel quale asserisce che le belle arti hanno origine da quelli che lui chiama “dolori innominati”. L’arte non dice nulla agli uomini che sono tutti presi dalla gioia e parla invece a coloro che sono occupati dal dolore o dalla tristezza. Sono proprio questi sentimenti alla base di alcuni capolavori. Marx cita “La colpa” del Mullner, “I masnadieri” di Schiller o “Riccardo III” di Shakespeare, ma la lista potrebbe essere notevolmente ampliata: “Delitto e castigo” di Dostoevskij, “L’urlo” di Munch, “I fiori del male” di Baudelaire, etc. Il legame fra queste opere d’arte e lo stato d’animo oppresso dei loro autori è palese. Camilleri, che ha fatto un commento all’ “Elogio del crimine”, cita una famosa frase contenuta in uno dei film più belli della storia cinematografica: “Il terzo uomo”, in cui Orson Welles, in una scena rimasta storica, afferma che in Italia, dalle guerre civili e dai massacri dei Borgia, è uscito Michelangelo, da Vinci e il Rinascimento, mentre dalla Svizzera, dopo secoli di pace e neutralità, è venuto fuori solamente il “cucù clock”. Camilleri però, secondo me giustamente, rimane cauto sulle conclusioni che si possono trarre da tutto questo discorso. Una interpretazione capziosa potrebbe asserire che la prima guerra mondiale ci ha regalato le poesie di Ungaretti e la seconda la “Guernica” di Picasso. Anche ai tempi dei greci la violenza e il male erano fattori sociali, ma erano incanalati nella espressione artistica della tragedia e svolgevano una funzione catartica (si badi soprattutto all’ “Edipo” di Sofocle). Oggi l’umanità sarebbe capace di fare lo stesso? A mio avviso no. L’ “Elogio del crimine” diverrebbe solamente un’arma intellettuale giustificazionista. Se pensate ch’io esageri, guardate le pericolose teorie di Celine a riguardo.