La fine degli eroi

Il mondo di Jean Giono è pagano. In esso non avverti il minimo soffio di trascendenza. Perciò non vi abitano il dubbio metafisico o morale, la scelta etica, il tormento della decisione. Il bene sembra collocarsi nella natura, infine non molto diversamente che in Hamsun, mi pare. La prosa di Giono, travolgente e proliferante, plastica ma non polisensa, è la trasposizione sulla pagina del naturale, da cui l’umano non si stacca proprio perché non afferra il proprium della violenza umana. O meglio, lo afferra sì, ma non se ne distacca. E non se ne distacca perché non lo mette al centro. La violenza, in effetti, è la vera signora delle pagine della breve silloge di racconti La fine degli eroi (a cura di M. Premoli, Sellerio, Palermo 1996), in cui ritroviamo Langlois il poliziotto, il tristo protagonista di Un re senza distrazioni. Questi racconti, che dovevano costituire la cerniera tra il mondo di Langlois e quello dell’Ussaro, vedono anche qua e là la comparsa di Pauline de Théus, e sono assolutamente mimetici. Qui non abbiamo differimento della violenza mediante il segno (Gans), ma salvezza dalla crisi mimetica mediante il sacrificio (Girard). Tra poliziotti e criminali non v’è differenza, come non vi è tra giocatori di poker, se non nell’abilità. Qui il gioco è mortale, ma la mortalità si presenta come gioco, distrazione, divertissement. Langlois uccide senza alcun problema, ai suoi occhi un uomo non è più di un animale, anzi forse un buon cavallo è più di un uomo. In Giono non vi è pietà per gli umani. Langlois non prova pietà per alcuno, e naturalmente neanche per se stesso, ed è disposto a morire in qualsiasi momento, perché vita e morte, nel circolo mimetico della violenza, non appaiono mai chiaramente distinte. Nella campagna provenzale ottocentesca di Giono ci si ammazza in liti generate da pretesti insignificanti, perché questa campagna non è luogo di pace ma di conflitto. E a Langlois dispiace che la forza della legge vi debba intervenire.

Nella mia giurisdizione, ci sono cinque o sei posti in cui la febbre può attecchire per un niente: per un orologio d’oro, o semplicemente perché si è parlato di un orologio d’oro, o spesso perché qualcuno ha sognato un orologio d’oro; o un dado d’oro; o un filo d’oro, o un niente (come ho appena detto) ma d’oro. Viene fuori da non si sa cosa, ex abrupto: da una parola detta, da un’immagine guardata (in particolare immagini di santi, per via dell’aureola), ed eccoli partiti per la loro idea; e immediatamente, la loro idea è uccidere. Sono poveri, d’accordo, ma in genere uccidono persone povere come loro. Di solito basta che io faccia atto di presenza per bloccare i danni prima che abbiano iniziato a farne. È una passeggiata; ma mi spiace talmente intervenire con la nostra goffaggine di uomini ricchi nelle distrazioni di quei diseredati che la riservo ai giorni in cui accetto qualsiasi cosa pur di non rimanere solo con me stesso. Come quel giorno.

Giono sa che è il conflitto mimetico a cercare il combustibile che possa alimentarlo. Ma non riesce a trascenderlo, e quindi a comprenderlo. In un contesto pagano non è possibile. In un testo pagano nemmeno.

Un pensiero su “La fine degli eroi

  1. Ho come l’impressione che la filosofia sia incapace di esaurire la profondità dell’arte. Anche se, per quanto riguarda Giono e il mio amato La collina, devo ammettere che le categorie girardiane risultano illuminanti

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