Non ho mai fatto volare un falco dal mio pugno, né richiamato a me un lanario o un pellegrino roteando un logoro, ma in passato avrei molto desiderato praticare la falconeria. Ma sono vissuto in luoghi non adatti, e non ho mai avuto un maestro nell’arte, e in verità non ho mai avuto alcun vero maestro in nulla, né per la caccia né per la pesca né per altre espressioni dello spirito, un misero autodidatta. Ma mi sono sempre interessato ai falchi, il cui destino nella Padania degli anni Settanta sembrava segnato dai pesticidi e dalle fucilate a protezione della selvaggina, e che ora sono in ripresa: ne vedo continuamente nella campagna trevigiana e addirittura dentro la città di Treviso. Giorni fa, durante una passeggiata in periferia ho visto uno sparviero volare tra gli alberi a pochi metri da terra, lungo un piccolo corso d’acqua. Lo sparviero è un rapace, ma non è un falco: appartiene al genere accipiter (nome latino della specie è accipiter nisus). Lo sparviero è piccolo, sembra una miniatura dell’astore (accipiter gentilis), che in inglese si dice goshawk, un rapace diffuso nel mondo con alcune sottospecie, e che ama il folto dei boschi, abilissimo nel volare a bassissima quota tra ostacoli di ogni genere, e potentissimo: riesce a uccidere anche le lepri. Ne ho visti, per pochi istanti, solo un paio in tutta la mia vita. E un astore (una femmina, tra i rapaci la femmina è più grande, forte e aggressiva del maschio), di nome Mabel, è la protagonista del libro di Helen Macdonald H is for Hawk (Jonathan Cape 2014), che io ho letto nell’edizione originale ma che è disponibile anche in italiano col titolo Io e Mabel (da Rusconi).
L’ho letto in inglese per diffidenza verso i traduttori italiani quando affrontano temi legati alla caccia, alla natura selvaggia e agli animali: se sono letterati senza conoscenze naturalistiche serie, come spesso capita, le traduzioni non mi soddisfano.
Ma cos’è questo libro? Un romanzo? Forse, ma un romanzo verità, un romanzo-analisi, un diario romanzato, una discesa nell’anima enfatizzata dalla letteratura… Quel che è certo è che questa ricostruzione di lunghi mesi di convivenza con una femmina di astore, una creatura naturalmente, per ragioni biologiche di specie, bisognosa di prede, di sangue caldo e di carne strappata col becco affilato, è una vera e propria discesa nell’abisso, con risalita finale. Una discesa nell’abisso accompagnata e contrappuntata da un continuo confronto con la tragica figura di T.H. White, uno studioso e scrittore dalla vita assai difficile, che si era negli anni Trenta dato alla falconeria e aveva con scarso successo tentato di addestrare un astore, raccontandone in un suo libro. White, destinato a diventare famoso per il suo La spada nella roccia, è una presenza forte in tutto il libro della Macdonald, ma non c’è da stupirsene più di tanto: benché entrambi strani e marginali (ma fino ad un certo punto), i due appartengono parimenti al mondo accademico britannico. Il secondo polo del libro, e non per importanza, è rappresentato dalla figura paterna, il fotografo e osservatore attento della realtà Alisdair Macdonald, la cui morte improvvisa la scaglia in un tunnel senza uscita, dal quale cerca di emergere insieme a Mabel, il rapace, allontanandosi dalla vita umana per vivere selvaggiamente, adattandosi ai bisogni dell’astore, vivendo una vita accipitrina, tra gli alberi, i conigli, i fagiani, la carne calda e il sangue che sgorga. Perché gli astori non sono come i nobili falchi di alto rango come il pellegrino e il girifalco, che volano alti e colpiscono la preda uccidendola sul colpo: l’astore vola basso tra alberi e i cespugli, afferra la preda con le dita armate di lunghi artigli acuminati, e subito inizia a mangiare, mentre ancora l’animale catturato non è morto. Per questo veniva considerato crudele e sanguinario, e disprezzato dai nobiluomini e usati da persone di basso lignaggio, nel mondo di una volta. Ma questo è un modo puramente umano di vedere le cose.
H is for Hawk è un libro molto più complesso e articolato di quanto si possa pensare, le pagine su White potrebbero essere viste come uno straordinario saggio a sé stante se fossero estratte e collazionate, e la forza narrativa è davvero potente, la carne e il sangue si sentono, e anche gli abissi nichilistici di uno spirito che ad un certo punto pare sprofondare nella depressione. Riporto due brevi passi, in cui si evidenzia il cuore del problema dell’umano che per sfuggire al vuoto si immerge nel non-umano.
The hawk was a fire that burned my hurts away. There could be no regret or mourning in her. No past or future. She lived in the present only, and that was my refuge. My flight from death was on her barred and beating wings. But I had forgotten that the puzzle that was death was caught up in the hawk, and I was caught up in it too. (p. 160)
Hunting with the hawk took me to the very edge of being a human. Then it took me past that place to somewhere I wasn’t human at all. The hawk in flight, me running after her, the land and the air a pattern of deep and curving detail, sufficient to block out anything like the past or the future, so that the only thing that mattered were the next thirty seconds. I felt the curt left of autumn breeze over the hill’s round brow, and the need to tack left, to fall over the leeward slope to where the rabbits were. I crept and walked and ran. I crouched. I looked. I saw more than I’d ever seen. The world gathered around me. It made absolute sense. But the only things I knew were hawkish things, and the lines that drew me across the landscape were the lines that drew the hawk: hunger, desire, fascination, the need to find and fly and kill. (p. 195)
In un certo senso, questo libro racconta la storia di una lunga e durissima tardiva iniziazione alla vita pienamente umana. Dall’abisso si risale, si contempla la realtà del mondo e degli animali come i falchi e gli astori da una prospettiva differente: occorre mantenerli nella loro alterità, poiché confondere l’umano nel non-umano è un male sia per l’umano che per il non-umano. Perché Goshawks are things of death and blood and gore, but they are not excuses for atrocities. Their inhumanity is to be treasured because what they do has nothing to do with us at all. (p. 275)