Il fiume dell’oppio

Il fiume dell'oppio

Sono 582 pagine che aggiungendosi a quelle del primo romanzo della trilogia di Amitav Ghosh fanno più di 1000. Dal Mare di papaveri scende Il fiume dell’oppio (River of Smoke, 2011, trad. it. di A. Nadotti e N. Gobetti, Neri Pozza 2011). In realtà, questa è la seconda parte di un romanzo gigantesco, che è un romanzo storico molto particolare, perché è anche una narrazione del nostro presente: lo sfondo è quello delle Guerre dell’oppio e della globalizzazione ai suoi inizi ottocenteschi, quando la rete dei commerci e degli scambi internazionali configurava già un Mercato mondiale, con i suoi tremendi squilibri. India, Occidente, Cina. La scena degli eventi narrati è la città di Canton, con la sua piccola comunità di occidentali che vive nella propria enclave, una comunità di soli maschi. Come nel primo capitolo della trilogia, la struttura del romanzo è complessa, ricchissima di personaggi e caratteri. Nessuna semplificazione, estremo rigore nello studio di usanze, oggetti, abitudini, pratiche ed eventi. Alla marea dei papaveri e del loro prodotto fa da contraltare l’attività appassionata di due botanici affascinati dalla straordinaria ricchezza della flora e della floricultura cinesi. La camelia aurea che hanno visto dipinta e che ricercano in tutti i modi, è forse il simbolo di un Bene a cui gli umani sembrano preferire il Male. Alla fine si viene a scoprire che quella camelia nella realtà non esiste. Esiste solo nella rappresentazione. Che sia un grado superiore di esistenza?

Mare di papaveri

 Mare di papaveriMare di papaveri di Amitav Ghosh (Sea of Poppies, 2008, trad.it. di A. Nadotti e N. Gobetti, Neri Pozza 2008 – BEAT 2011). Primo volume di una trilogia, la Trilogia della Ibis, dal nome della goletta impegnata in vari traffici, tra cui il trasporto della carne umana. Siamo intorno al 1838, nei dintorni di Calcutta, al tempo della coltivazione del papavero su grande scala promossa dai dominatori inglesi, per la produzione dell’oppio destinato a inondare il mercato cinese e non solo (si pensi al laudano). Molti personaggi, grande narrazione, ampiezza di prospettiva. Capacità sovrana di annodare e snodare le fila. Soprattutto, un intreccio di linguaggi, un insieme di gerghi e inglesi parlati da appartenenti a popoli differenti, culture e classi diverse, dialetti, congreghe marinare, ecc. che la traduzione può rendere solo in parte (deve essere stato un ben duro lavoro quello di Nadotti e Gobetti). Ghosh qui risale al crogiolo da cui è scaturita l’India moderna (e il Pakistan).  Ci sono i problemi della casta e dello sfruttamento, e insieme c’è il respiro dell’avventura e del viaggio per mare (che rimandano a Conrad e forse anche al Golding della Trilogia del mare). Il Mercato appare qui come una potenza che tutto travolge. Questo si manifesta anzitutto nell’obbligo per i contadini di coltivare papaveri anziché cereali, con conseguente rovina e fame. E c’è sempre l’ideologia che tutto giustifica, come si vede nel dialogo tra l’onesto maharaja decaduto Neel e il potentissimo affarista Mr Burnham. Più di cinquecento pagine che si leggono col vento in poppa.

«Tuttavia, Mr Burnham» insistette Neel, «mi risulta che in Cina il vizio sia molto diffuso, che ci sia molta dipendenza. Non mi dirà che simili afflizioni sono gradite a Dio».
Burnham fu punto sul vivo. «I malanni di cui lei parla, signore, confermano semplicemente la natura peccaminosa dell’Uomo. Se mai dovesse capitarle di camminare tra le catapecchie di Londra, Raja Neel Rattan, vedrebbe con i suoi occhi che nelle mescite di gin della capitale dell’Impero c’è tanto vizio e dipendenza quanto nelle topaie di Canton. Dovremmo dunque radere al suolo tutte le taverne della città? Bandire il vino dalle nostre tavole e il whisky dai nostri salotti? Privare i nostri marinai e soldati della loro dose giornaliera di grog? E una volta sancite tali misure, crede che il vizio sarebbe cancellato e che la dipendenza cesserebbe? E che ogni membro del Parlamento dovrebbe sentirsi responsabile di eventuali fallimenti? La risposta è no. Perché l’antidoto al vizio non sta nei divieti sanciti da parlamenti e imperatori, bensì nella coscienza del singolo, nella consapevolezza individuale delle proprie responsabilità e nel timore di Dio. È questa, mi creda, la più preziosa lezione che possiamo offrire alla Cina come nazione cristiana, e non dubito che tale messaggio sarebbe ben accolto dal popolo di quello sfortunato paese, se il despota crudele che li tiene in pugno non impedisse loro di ascoltarlo. Solo alla tirannia va il biasimo per la degenerazione della Cina, signore. I mercanti come me non sono che fedeli servitori del Libero Commercio, che è immutabile come lo sono i comandamenti di Dio». (pp. 121-122)

Il paese delle maree

Il paese delle maree

Ne Il paese delle maree di Amitav Ghosh (The Hungry Tide, 2004, trad. it. di A. Nadotti, Neri Pozza, Vicenza 2005) troviamo la figura di un insegnante in pensione, rivoluzionario marxista fallito, che sconta la propria inadeguatezza in un disperato tentativo di combattere un’ultima battaglia (culturale) dalla parte dei poveri contadini immigrati in un’isola da cui il governo indiano li vuole espellere. Il momento del congedo dalla scuola, quel momento che per ogni insegnante che abbia vissuto il mestiere come vero e proprio modo di esistere assume caratteri estremamente critici, per l’insegnante Nirmal (Nir- come Nirvana?) appare quasi come portatore di una rivelazione. Esso mette in luce un elemento mimetico-rivalitario sempre costitutivo di ogni comunità umana, anche di ogni comunità docente, e qui espresso con una concentrazione poetica folgorante. Mai ho trovato descritta in modo così sconvolgente la miseria di una condizione umana e professionale: «chi ha fatto per trent’anni lo stesso mestiere diventa come muffa sul muro: tutti desiderano ardentemente di vederla asciugare alla fulgida luce del nuovo giorno».

Con l’avvicinarsi dell’ultimo giorno di scuola era sempre più evidente che gli altri insegnanti aspettavano ansiosi il mio congedo… non per malevolenza, credo, semplicemente per la curiosità di vedere cosa riservava il futuro. Chi ha fatto per trent’anni lo stesso mestiere diventa come muffa sul muro: tutti desiderano ardentemente di vederla asciugare alla fulgida luce del nuovo giorno. (p. 170)