«Di mio nonno, due sole cose possedevo: il nome, Ulisse, che io porto come secondo, e che sempre ho dovuto considerare come un intruso, una parte sconosciuta di me; e una giacca, un tessuto ruvido di lana, il nero orbace della sua divisa autarchica. Niente di più, prima di questo libro». (p. 6). L’eco del titolo del libro di Massimo Zamboni (Einaudi 2015) è quella dei colpi che nel 1944 uccisero il gerarca fascista che era il nonno materno dell’autore. Altri spari nel 1961: il capo partigiano Rino Soragni, “Muso”, autore di quella esecuzione, viene ammazzato dal suo compagno di allora, il compagno Alfredo Casoli, “Robinson”, anche lui capo partigiano, dopo una vicenda di risentimento e di odio intrecciatasi per anni con quelle del partito comunista emiliano. Una indagine sofferta tra memorie pericolose, quella di Zamboni. Memorie della famiglia materna, soprattutto, una famiglia di possidenti di fede fascista. Questo libro è testimonianza di quanto sia ancora difficile, soprattutto in alcune zone del nostro Paese, costruire una memoria storica condivisibile, placata. L’odio non muore facilmente, in Italia, e trova sempre nuove vie per trasmettersi e rivivere. Zamboni restituisce la memoria anzitutto di una vecchia Reggio Emilia che non c’è più: odori, colori, usanze, modi di vivere e intendere la vita, famiglie contadine povere e ricche, contadini mezzadri ed ex contadini imborghesiti, famiglie dai molti figli, terra grassa e produttiva, fonte di un possibile benessere collettivo, su cui si innescano lotte di classe feroci. Poi, descrive con realismo gli anni della guerra, di privazioni e violenza. Come altrove nel nostro Paese, anche a Reggio la resistenza armata contro i nazi-fascisti fu anche un catalizzatore di antichi odii, una occasione di vendette private e collettive. Le ragioni degli uni non sono certo messe da Zamboni sullo stesso piano di quelle degli altri: lui è sempre stato uomo di sinistra e antifascista, ma entrambi i rami della sua famiglia, e in particolar modo quello materno, furono fascistissimi. Pure, Zamboni non può negare a quegli uomini e a quelle donne di essere stati umani, e questo è uno degli ingredienti che contribuiscono al tono dolente del libro. Dolente per la vecchia Reggio contadina scomparsa, dolente per la ferocia degli umani, i fratricidi, e per le atroci sofferenze e i lutti che colpiscono alcuni e non altri. Un singolare parallelo innerva il libro: quello tra i sette fratelli B* della famiglia materna e i sette fratelli Cervi. Due famiglie, due destini, due levature morali differenti, ma stesse facce, stessa terra, stessa lingua. Mi vengono in mente due cose: in primis, le esecuzioni di funzionari e gerarchi fascisti da parte dei GAP descritte nel libro mi ricordano terribilmente quelle che saranno operate dalle BR negli anni Settanta. I brigatisti, in effetti, si pensavano come combattenti. E qualcuno in quegli anni di piombo, ad alto livello politico, propose anche di considerarli tali per trattare con loro. In secondo luogo, ancora una volta si ha qui la prova del fatto che l’odio è proporzionale al grado di somiglianza dell’altro a noi: tanto più lo si odia quanto più ci assomiglia. In quella reggio i fascisti e i partigiani sono uguali: stesse espressioni, stesse facce, stesse corporature, stesse biciclette, stessi tabarri. E l’odio è mortale, e i suoi residui giungono per rivoli e rivoletti fino ai nostri giorni. Mi vengono poi in mente le parole di Ives Bizzi, un partigiano comunista e autore di una vastissima ricerca storica sulla Resistenza nel Trevigiano, che durante un colloquio che ebbi con lui nel 1999, mi raccontò di vendette private fatte passare per esecuzioni politiche, sulle quali stava indagando, e delle minacce di morte che per questo suo lavoro continuava a ricevere. Lui si professava tuttora comunista, ma la verità storica prima di tutto, diceva. Anche Zamboni mi pare sfiorare a volte qualcosa che giace sepolto ma inquieto.
«Distesa tra il fiume e i monti, questa da sempre è terra di sopraffazione e di conquiste. Terra generosa, fertile per antico mare e susseguenti inondazioni, profonda, livellata, grassa. La gente si ammazza per una terra così. Strappato alla palude o al bosco, difeso a oltranza, ogni nostro campo è sacro, e contiene un nome che non deve essere pronunciato». (p. 158)
