Anche nell’ultima parte di Filosofia di passione, in cui Fornari dispiega la sua grande forza di pensatore, tutto l’edificio della sua teoria unificata del mito e del rito (ovvero della cultura umana) posa con tutta evidenza sul concetto di vittima originaria, che è insieme il concetto dell’origine della vittima. E’ evidente che è l’individuo massacrato unanimemente dal suo stesso gruppo la vittima che Fornari ha in mente.
Questo individuo, o meglio questo membro del gruppo, diviene il primo segno o simbolo perché introduce una differenza assoluta, che sarebbe quella tra il gruppo e la vittima stessa. Ora, a me pare che qui il ragionamento non sia pienamente razionale, ma appartenga in qualche modo al mito, si costituisca platonicamente come mythos per dire ciò che è in realtà indicibile, l’assolutamente inattingibile. L’azione del gruppo produce insieme la morte violenta di uno e la sua trasfigurazione in vittima (e poi della vittima in altro da sé). Il tutto può darsi solo a condizione che venga attribuito ad un membro del gruppo un “potere immenso”, prima negativo per il gruppo stesso, che se ne sente radicalmente minacciato nella sua stessa sopravvivenza, quindi benefico perché proprio mediante l’uccisione dell’elemento dotato di potere negativo immenso il gruppo si ritrova armonizzato e pacificato. Ma questa retroproiezione in ere perdute di una disposizione che è già in qualche modo spirituale (poiché un “potere immenso” non appartiene alla pura animalità) non può trovare sostegno scientifico, né teologico, né filosofico.
La vittima, uccisa dall’intero gruppo coalizzato contro di lei, è il primo “segno”, il primo “simbolo”, che ha rotto l’universo chiuso delle relazioni animali, introducendo una differenza assoluta, quella fra il gruppo e la vittima, una soluzione di continuità percettiva e mentale foriera in se stessa di esponenziali sviluppi. Abbiamo visto che, secondo Girard, questa differenza assoluta, identificata nella vittima, dipende dal fatto che la comunità attribuisce al suo capro espiatorio un potere immenso, dapprima distruttivo finché la vittima è viva, e subito dopo benefico non appena essa è uccisa e scende improvvisa la pace. Si tratta di una doppia scarica rapidissima e traumatica, di una specie di elettroshock collettivo, concettualizzabile nei due momenti del doppio transfert. È una situazione eccezionale e traumatica di cui Girard ha sottovalutato la forza e la capacità creativa, ignorandone sostanzialmente la struttura interna, come risulta anche dalla sorprendente mancanza di un qualsiasi approfondimento del concetto di transfert. (p. 347)
Il problema è che l’unanimità osservata, e quella anche di cui parlano i miti analizzati da Girard e Fornari, è una unanimità già mediata dalla rappresentazione, come si vede, per prendere l’esempio più elevato, nel racconto evangelico della Passione. Personalmente, non riesco a figurarmi un gruppo di ominidi che ammazzano uno del loro gruppo perché gli attribuiscono un potere devastante, e poi illudendosi lo divinizzano. Tanto più che Fornari tende ad arretrare cronologicamente l’Origine a tempi lontanissimi. Nelle pagine sulla natura trascendente del punto i cerchi di pietre attribuiti ad homo habilis (pag. 367 e sgg.) vengono utilizzati da Fornari a sostegno dell’idea che la vittimizzazione omofagica risalirebbe addirittura a milioni di anni fa
La cosa straordinaria del secondo transfert, della traslazione estatica o divinizzante, è che la differenza assoluta attribuita alla vittima è di per sé illusoria, ma è ciecamente creduta da tutti, trasformando con ciò stesso quello che ai nostri occhi appare un inganno in uno strumento di scoperta e di conoscenza. Nei termini nietzschiani, che Calasso ancora segue, questa trascendenza sembra confermare l’illusorietà di ogni culto, da superare nella oltreumanità dei sacrificatori coscienti (Nietzsche), o nel recupero cosmico del sacrificio come legge necessaria dell’esistente (Calasso). La visione nietzschiana resta prigioniera del presupposto che condiziona anche Girard, ossia che le apparenze fenomeniche dell’origine debbano venire in sostanza scartate come illusorie, il che significa presupporre, a ruoli invertiti, l’idea di verità asseverata dai miti e dai riti. Che Nietzsche avverta come nessun altro nella sua epoca l’intensità delle divinizzazioni primordiali e cerchi di far sua la “transverità” dei miti in prima battuta, e poi in senso autoimmolatorio dei riti, non è che la conseguenza dell’irreversibilità del disincanto moderno, solo fattore a rendere possibile questa manipolazione del sacro che non ha precedenti. Ciò equivale a affermare che le divinizzazioni moderne dovrebbero collocarsi in una dimensione che è oltre la verità o non verità, appunto nella transverità della trasvalutazione, che si risolve in un’autoconferma performativa dal significato infausto. È una stretta da cui non si viene fuori così a buon mercato. Se il sacrificio è un’illusione che si presenta come verità, questo non significa che esista una verità non illusoria che sarebbe quella della scienza come pensa Girard, o quella della metafisica indiana come pensa Calasso (p. 350)
Fornari pensa di superare il problema ponendo “una verità che poteva presentarsi agli animali in via di ominizzazione solamente come illusione”. Questo mi pare modellarsi sul concetto di una pedagogia divina, confermando l’intrico di paleoantropologia, filosofia e teologia che è il pensiero di Fornari. Molte sono le zone oscure che mi sembrano porre interrogativi piuttosto stringenti. Anzitutto l’origine di quella smisurata tensione entro il gruppo preumano che può essere risolta ogni volta solo con il linciaggio del membro pericoloso del gruppo stesso, tensione che mi sembra debba essere spiegata e non solo presupposta (per quale causa i normali meccanismi del pecking order crollano?). Poi la scelta del membro da eliminare. Non il più forte, allora il più debole. Ma se è il più debole perché malato o storpio, che pericolo può rappresentare per il gruppo? In tal caso, invece che massacrato, dovrebbe essere espulso, allontanato, mandato in bocca ai predatori (un punto su cui Burkert ha fatto annotazioni interessanti). Credo che sulla differenza tra linciaggio ed espulsione, e sui loro moventi, Girard e Fornari non abbiano ragionato a sufficienza.
Ma in principio il symbolon con cui tutti i membri del gruppo si identificavano, dopo aver colpito il sym-bolon (da sym-ballein) del malcapitato prescelto, era un pezzo sanguinante del suo corpo, un pezzo ancora palpitante di carne cruda che veniva immediatamente divorato. Sulla scorta di quanto scoperto da Robertson Smith e da Freud, ritengo possa essere stata questa, per i suoi caratteri di primordialità e di efficacia, la forma più antica di uccisione della vittima, talmente potente da sopravvivere in innumerevoli riti sacrificali ancora in epoca storica, e da essere riprodotta nel simbolismo universalmente diffuso delle diverse parti del mondo nate dallo smembramento di qualche personaggio mitico, come ad esempio Purusha, l’uomo primordiale della mitologia indiana che fa un tutt’uno con Prajapati, un «tutt’uno» da cui nascono i “molti” di tutti gli esseri differenziati. Naturalmente abbiamo ancora troppo pochi elementi per dire qualcosa di più, perché ci dev’essere stata una lunga fase di intensificazione del meccanismo vittimario che ha condotto, partendo dai metodi ancora rudimentali della fase infraculturale (cioè immediatamente precedente alla cultura vera e propria), a una sorta di “precipitato” al momento della nascita della cultura umana. Quello che con sicurezza emerge è che si è trattato di un momento assolutamente saliente, e condiviso dall’intera specie, perché i suoi residui simbolici sono osservabili nelle culture dell’intero pianeta, e l’ulteriore dettaglio che nel sacrificio omofagico assistiamo a un convergere tra violenza collettiva spontanea e ripetizione rituale mi autorizza a pensare che sia stato questo il primo sacrificio conosciuto dall’umanità. Un altro indizio importante da non tralasciare è che questa forma di sacrificio mostra di essere più antica di qualsivoglia invenzione di armi vere e proprie usate per uccidere: siamo cioè in una fase in cui i membri di una comunità non impiegano mezzi offensivi esosomatici se non occasionali o comunque tecnologicamente non sviluppati, né tanto meno il fuoco.
(p. 353)
Dunque per Fornari il sacrificio di un membro del gruppo e il suo consumo nel banchetto omofagico sono il marchio originario della specie. La sua convinzione è così assoluta che egli ostinatamente attribuisce a Eric Gans ciò che non gli appartiene, rasentando lo straw man argument per demolire la teoria del suo rivale. Infatti Fornari colloca nella scena originaria gansiana un “corpo della vittima” che in Gans non vi è affatto. Nella scena gansiana, infatti, l’oggetto centrale intorno al quale i preumani stanno per essere indotti dal loro appetito a scatenare una furia distruttiva del loro stesso gruppo, che viene differita dall’emissione del primo segno, non è affatto una vittima, ma una preda, ovvero un animale di un’altra specie. In Gans il primo segno non è infatti un corpo, ma un gesto. E la liquidazione della prospettiva gansiana da parte di Fornari mi appare davvero frettolosa e scorretta.
L’evento fondatore descritto in quest’opera [ Delle cose nascoste fin dalla fondazione del mondo] risulta parzialmente inficiato da elementi anacronisticamente oggettuali come l’attenzione verso il corpo della vittima, anche perché vi è la tendenza a mescolare o a non distinguere tra loro aspetti riconducibili a fasi evolutive diverse, aspetti che restano empiricamente mescolati nelle culture umane, ma naturalmente solo una volta che uno stadio più avanzato si è affermato (l’empirismo culturale umano non autorizza quindi la confusione, ma può essere compreso soltanto facendo chiarezza).` Tale difetto di formulazione si è amplificato nella teoria di Eric Gans, secondo la quale la cultura nascerebbe dall’impedimento a impossessarsi del corpo della vittima che il gruppo esercita su ogni suo membro subito dopo la sua uccisione, aborted gesture che assegnerebbe alla vittima il suo valore divino: riformulazione non priva di valore, in quanto esplora una piccola parte della traslazione originaria, e che aggrava tuttavia i limiti della versione girardiana, ponendo al centro dell’intera scena non solo quella che in definitiva è già una rappresentazione della vittima, ma anche una sorveglianza reciproca che implica una prima rudimentale forma di contratto sociale, laddove invece è coerente ipotizzare un evento unico e grandioso, a cui tutti gli animali in via di ominizzazione obbediscono in preda a un impulso collettivo. (p. 354)
Ipotizzare. Questo è il punto. Qualsiasi scena originaria è ipotetica. Il problema è se su una ipotesi cosciente della propria fallibilità si possa costruire una visione del mondo della dimensione e delle pretese di quella di Fornari.
(10 – fine)
“Qualsiasi scena originaria è ipotetica”
Forse di più.
Fabio, leggo questi post colla scarsa comprensione di chi ha letto niente dei testi ed ha idee vaghe sull’argomento, ma mi interessano. Quindio intervengo modestamente e a mio rischio.
Quello che non mi convince in questi ragionamenti è il paradigma evolutivo-genealogico che vi soggiace spesso, che inevitabilemnte paga un tributo a quello darwiniamo nel leggere il passaggio del tempo come sviluppo dal semplice al complesso…
Non so se sono riuscito a spiegarmi.
Ti sei spiegato benissimo, Stefano. In effetti, Girard, Fornari e Gans accettano il quadro complessivo dell’evoluzionismo contemporaneo, e ne criticano soltanto alcuni aspetti ideologici estremisti. Dal canto mio, sono per un uso della ragione critica sempre e dovunque.
Egregio prof. Brotto, sinceri complimenti per l’articolata, esaustiva “recensione” appassionata al libro di Fornari.
Mi permetto solo di chiederle, se anche Lei (con i succitati Autori) accetta o meno “il quadro complessivo dell’evoluzionismo contemporaneo”.
Saluti
Grazie per i complimenti. Quanto alla teoria dell’evoluzione, il discorso è complesso. Diciamo che l'”accetto” come la risposta al momento più convincente alle questioni poste dai dati che abbiamo sulla scomparsa di specie e sull’avvento di nuove specie nel corso della storia del nostro pianeta. La speciazione è però un fenomeno che presenta una serie di criticità che sono state messe in risalto anche recentemente (abbiamo ad esempio sempre specie ben determinate, ecc.). Dal punto di vista filosofico, tuttavia, l’evoluzione è solo un caso della più ampia questione del divenire.