Il giardino di cristallo

Vi è una scena altamente drammatica e narrativamente splendida nel romanzo dell’iraniano Mohsen Makhmalbaf Il giardino di cristallo (Le jardin de cristal, 1982, trad. it. di A. Cristofori, Bompiani, Milano 2003): quando un gruppo familiare penetra di notte in un cimitero, con la complicità di un becchino, per esumare il cadavere di quello che sperano possa non essere il giovane Akbar, dato per caduto martire nella guerra Iran-Iraq un anno prima. La famiglia spera in uno scambio di persona fortuito, e di poter verificare che il morto sia un altro, e poter pensare che il congiunto si trovi prigioniero in Iraq. Il cadavere è nella terra da un anno, e loro pensano di identificarlo misurandolo. La scena è toccante e atroce. Spera e teme nello stesso tempo, la famiglia, perché il padre di Akbar ha nel frattempo convinto l’altro suo figlio Ahmad a sposarne la vedova. Così Ahmad è marito della cognata e padre-zio di due bambini. E per sposare la cognata ha dovuto rompere il suo fidanzamento con una ragazza che gli piaceva. Qui, e in altri luoghi del romanzo si vede come il matrimonio e la famiglia non siano anzitutto una questione di innamoramento, come pensano gli Occidentali moderni. La famiglia è una istituzione sociale, eros è libero e pazzo. Questa iraniana del 1981 è poi una società nella quale la rivoluzione islamica ha segregato le donne tra loro, vietando ogni rapporto pubblico tra donne e uomini. Tuttavia è facile notare come fenomeni mimetici quali il competere in bellezza e il seguire la moda penetrino anche la dura scorza dell’islamismo komeinista. Nel passo che qui riporto Layeh, una delle protagoniste femminili, si trova, non contenta, ad una festa, ovviamente di sole donne.

“Si dice che le donne devono prepararsi per il marito, perché in paradiso le aspettano mille camere con mille letti…”
E senza dubbio mille parrucchiere, pensò Layeh. Tutte quelle donne agghindate le une per le altre. Fierezza. Do­po tutto, bisognava pure che qualcuno approfittasse delle bellezze che Dio aveva distribuito: ne ho abbastanza di questo velo! Vicine, donne, sorelle mie, guardate! Nella sala del ricevimento si dispiegava una festa di colori e di volti truccati. Da una parte, un abito con il collo scarlatto segnato da un collier di perle rivaleggiava con un velo or­nato di monete d’oro. Dall’altra, due cuffie verdi in com­petizione, di cui una lasciava sfuggire delle ciocche a tira­baci:
“Dio mi ha fatto più bella!”
“No, sono più bella io! ”
Layeh sapeva che occhi indiscreti si tenevano appostati; occhi e lingue che avrebbero riportato il minimo dettaglio alle orecchie profane del loro marito. Dal giorno dopo si sarebbe diffuso il racconto dettagliato della serata:
“Dovevi vedere la veste che aveva la moglie di Untel. Per Dio, e sì che è una credente! Suo marito è ancora più severo di te, ma ti assicuro che sua moglie era vestita così!
(p. 62)

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