Lo strano caso del cane ucciso a mezzanotte. Ho letto questo libro perché mi era stato detto che il protagonista del romanzo di Mark Haddon The Curious Incident of the Dog in the Night-Time (2003, trad. P. Novarese, Einaudi, Torino 2003) è un ragazzino autistico, affetto dalla Sindrome di Asperger. E, per avventura, io ho un figlio autistico.
L’autismo è un disturbo generalizzato dello sviluppo psichico (probabilmente di origine genetica, comunque con una base organica: in ogni caso riguarda il funzionamento del cervello) sul quale si sa ancora molto poco. Certo è che tocca profondamente le sfere della percezione, della comunicazione e del linguaggio. Al soggetto autistico la realtà non appare come appare alle persone normali. E di autistici ce ne sono tanti, e sono assai diversi tra loro, e alcuni (pochissimi) eccellono in particolari settori. Christopher, il protagonista del romanzo di Haddon, eccelle in matematica. La storia si presenta come un’indagine sulla morte violenta del cane di una vicina di casa, che il ragazzino trova ucciso con un forcone, di cui vuole scoprire il colpevole. È un’indagine svolta da un personaggio del quale non si potrebbe trovare uno meno adatto a svolgere un’indagine. Nei romanzi, di solito, il detective è un esperto di umanità, conosce gli altri, si sa addirittura calare nei panni dell’assassino, pensa o si sforza di pensare come lui. Christopher, invece, non sa affatto pensare come gli altri, e la sua differenza sta anzitutto nella sua essenza a-sociale (il suo desiderio profondo è quello di un mondo senza gli altri, ama gli animali come esseri non metaforizzanti, incapaci di “mentire”, mentre le persone comuni gli appaiono assurde, fondamentalmente irrazionali e anti-matematiche). Perché questo è il punto: per la mente di Christopher la matematica è il regno della pura ragione – e della sicurezza psicologica. Nella matematica la mente autistica trova la sua certezza. Ed è interessante il fatto che per il protagonista la matematica sia reale, sia la sostanza del mondo: tutto ciò che sfugge alla matematica è, in qualche misura, irreale, come tutto ciò che è metaforico. Christopher è scienziato, non poeta. La sua logica è rigorosa: eliminata ogni metafora, cade non solo la religione, ma anche la letteratura, le storielle, le barzellette, e risultano incomprensibili e assurdi anche molti divieti come, ad esempio, non calpestare l’erba. Della metafora il protagonista dice:
Credo che potrebbe anche essere definita una bugia, perché il cielo non si riesce a toccarlo con un dito e la gente non tiene gli scheletri nell’armadio. E quando mi concentro e cerco di rappresentare nella mia testa frasi come queste non faccio altro che confondermi, perché immaginare qualcuno con dei diavoli attaccati ai capelli mi fa dimenticare di cosa sta parlando la persona che ho di fronte.
Il mio nome è una metafora. Significa colui che porta Cristo e deriva dal greco χριστος (che significa Gesù Cristo) e da φερειν, ed è il nome dato a san Cristoforo dopo aver trasportato Gesù Cristo dall’altra parte di un fiume.
Mi domando come si chiamasse prima di trasportare Cristo dall’altra parte del fiume. In realtà non veniva chiamato in nessun modo perché si tratta di una storia apocrifa, e quindi anche questa è una bugia.
Mia madre diceva sempre che Christopher era un bel nome perché apparteneva a un uomo buono e gentile, ma io non voglio che il mio nome abbia niente a che fare con l’essere buoni e gentili. Voglio che il mio nome significhi me. (p. 22)
Al termine della narrazione, troviamo Christopher che deve sostenere un esame di matematica, durante il quale il supervisore, il Reverendo Peters, legge The Cost of Discipleship, un libro di Dietrich Bonhoeffer, il teologo tedesco che pagò con la morte nel lager la sua opposizione ad Hitler. Debbo confessare che il senso di questo particolare, se c’è, mi sfugge totalmente.
L’ho letto anch’io. L’ho trovato piacevole, anche furbescamente costruito (parlo da scrittore di romanzi), non molto di più.