Credere e non credere è il titolo italiano (il Mulino, Bologna 1993) di un libro apparso in inglese nel 1970 col titolo The Paradox of History, e tradotto in Italia nell’anno successivo. In esso Nicola Chiaromonte scrive del problema del senso della storia, investigandolo attraverso la prospettiva di alcuni romanzieri: Stendhal, Tolstoj, Martin du Gard, Malraux, Pasternak. Autori molto diversi tra loro, ma che in comune hanno la questione del rapporto tra il singolo individuo – e il suo senso dell’esistenza, il suo problema del significato della vita – e la grande storia, che rivela la sua inafferrabile alterità soprattutto nella guerra. Da un lato l’individuo, dall’altro la rete degli eventi, piccoli, infinitesimi, grandi, massimi, che nessuno può vedere tutta, perché l’uomo non è Dio. Sì che esaminare i grandi eventi ricercando cause, leggi storiche, ecc., non può che portare ad abbagli, a fraintendimenti, a falsa coscienza, a ideologia, e infine alla totale fuoriuscita dalla verità. Quante battaglie sono state decise da variabili imprevedibili, come la pioggia a Waterloo? Nella sconfitta finale di Trotzkij quanto contò la caccia alle anatre in cui si buscò quel raffreddore che gli impedì di partecipare a quella riunione? [ A proposito: Lenin andava a caccia, come Trotzkij e come Bucharin, quasi quasi mi sono simpatici]. Non si può dire, per difetto di visione. Chi azzarda giudizi sicuri in questo campo pecca di hybris. Peccato essenziale del Novecento, il secolo della falsificazione ideologica a tutti i livelli, il secolo in cui tutti sentenziano a partire dalla loro sicura individuazione delle cause di questo e di quello.
Nell’agire, non abbiamo altra guida tranne ciò che crediamo gli uni degli altri e del mondo in cui viviamo. Napoleone, Kutuzov, l’ultimo dei loro soldati, l’uomo più geniale come il più mediocre, il più lucido e raziocinante come il più sciocco, nessuno può mai oltrepassare il limite che, all’ultimo, fa di ogni sapere un semplice credere, di ogni azione un colpo di dadi a rischio di se stessi e d’altrui. Nel campo degli eventi umani, la nozione di causa non ha senso.
Questo è il limite che rende così stolta l’arroganza dei potenti. (p. 57)
Precisato, in primo luogo, che un conto sono le cause, che determinano, e un conto sono le ragioni, che giustificano; aggiunto, poi, che, indubbiamente, il mondo della storia è sublunare, quindi imperfetto, talché in esso, assieme all”ananke’ (la causa necessaria) o, se si preferisce un’alternativa concettuale e terminologica di tipo humiano, assieme alle regolarità, giocano un ruolo anche la ‘tyche’ (il caso) e il ‘kairòs’ (l’occasione); sottolineato, infine, che la storia sarebbe soltanto “il racconto di un folle”, se ad illuminarla non intervenissero dei modelli esplicativi di tipo nomologico-causale; fatte queste premesse, ritengo che imputare la sconfitta di Trotzkij alla sua passione per la caccia alle anatre non sia più sensato del cercare i segreti della caduta dell”Ancien Régime’ nei letti di Luigi XV. L”ottica del cameriere’ non può essere un criterio interpretativo adeguato alla conoscenza storica.
Dal canto mio, alle leggi storiche credo molto poco (si tratta di crederci, infatti). Il credente nelle leggi storiche mi sembra appartenere al tipo umano che credeva, per esempio, all’inevitabile trionfo del socialismo.