La caccia divina

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Il mio ottimo amico Alberto Astolfi insegna nel dipartimento di lettere occidentali antiche del John Truthful College di Grousehunting, nel Maine, da molti anni. Come me, ama la caccia e la pesca. Mi ha mandato questo scritto per il mio neonato blog. Lo pubblico con qualche giorno di ritardo, a meno di un mese dall’apertura della caccia qui da noi.

Nell’ultima ora della notte percepisci l’avvento della Dea. Lo sente l’animale vivo che ti è compagno, il cane, l’Argo, l’erede di infinite generazioni, la guida dell’uomo sui sentieri divini. Lo sente l’animale che tra poco sarà morto, la preda, quella che non può sapere di sé che sta vivendo l’ultima ora in una terra dell’Occidente postmoderno, donde la Dea sarà tra poco inesorabilmente bandita.

Ben poco resta, in verità, del culto puro di Artemide. Da un lato l’ha investito la massa, e la volgarità del denaro l’ha svilito. Dall’altro, il sentimento animalista ed ecologista dei nostri tempi, rivestimento irrazionale di una razionalità contraddittoria, l’ha diffamato e condannato.

I cacciatori rimasti sono per lo più gente incolta e profana. Non sanno quello che fanno. Praticano riti che danno loro piacere, in quanto danno loro piacere, ma questo li allontana dalla conoscenza. A qualsiasi classe sociale appartengano, per loro ciò che conta è la quantità: dei giorni di caccia, degli animali uccisi. Sono sportivi, secondo la loro opinione, massacratori secondo il sentimentalismo diffuso e l’opinione dei politicamente corretti. Con lo stesso animus essi possono andare ad ammazzare beccacce in Crimea o a gridare in uno stadio. Non sono sacerdoti di Artemide.

Il movimento che subitamente si arresta: irruzione dell’eterno nel tempo. E’ per questo che la forma suprema di caccia è quella col cane da ferma. Il suo oggetto è un uccello che sta sul terreno. Il cane lo cerca correndo nei prati e nei boschi, e quando ne avverte l’odore si avvicina ad esso e lo punta. Dopo qualche istante di immobilità assoluta (il cane che correva ecco è simile a statua di marmo) l’uccello spicca il volo. Allora tu punti il fucile, ne segui il volo, calcoli velocità e traiettoria, e spari. Se lo colpisci, l’uccello volante si ferma nell’aria, le piume spargendosi, nuvola intorno. In questi due istanti l’eterno per due volte irrompe. Questo è il duplice momento di Artemide, la sua epifania. Questa è la rivelazione del Desiderio al suo stato assolutamente puro.

DICTUM CONTRA
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Il sacer-dote rende sacro l’atto concreto facendolo accadere secondo una forma rituale, che ripete cioè un modello che il mito tramanda. Il sacro è sempre legato alla violenza, ma il sacro di Artemide no. Quella del lupo sulla preda non è violenza, e neppure quella del leone maschio che uccide i figli piccoli di un altro leone maschio. La violenza è quella dell’uomo sull’uomo. Perciò la caccia e la guerra hanno la stessa origine, ma non si amano. I loro sentieri sono lontani, e sempre più lontani. Mentre due orde di tifosi del calcio che si confrontano sono già guerra. Atena ed Ares sono molto più vicini tra loro di quanto entrambi non siano rispetto ad Artemide.

L’atto artemisio che avviene nel bosco non prevede una vittima consenziente al proprio sacrificio.

Trovare ciò che è nascosto. Ciò che si nasconde. Ciò che, essendo nascosto, può tuttavia volare. Ciò che nel volo ti può sfuggire. L’inafferrabile con le sole mani. Ciò che il fuoco può fermare, per un immensurabile istante, il fuoco che esce dal ferro che impugni. Mira! Il volo fermato e l’essente alato nelle tue mani. Il dileguante calore dell’uccello stato-vivo trapassa in te.

Qual è la tua città, Eraclito? In quale città il tuo santuario, Artemide?

9 pensieri su “La caccia divina

  1. Mah .. quest’estetizzazione attraverso connotazioni culturali non riesce a ribaltare la realtà dei fatti, che si risolve nell’impiombare un gallinaccio terrorizzato. Posso rispettare una caccia che sia fondata sulla necessità e sul rischio personale, mentre un’attività di questo tipo mi fa semmai pensare (specie quando vengono introdotte certe fantasticherie “sacrali”) a qualche piccola perversione libidica, di carattere sadico o necrofilo.

  2. Resta da spiegare come mai il cacciatore non si diverta affatto a tirare il collo ad una gallina domestica terrorizzata, o a scannare un maiale terrorizzato. In effetti cacciare non coincide con l’uccidere, altrimenti tutto si ridurrebbe all’atto finale. Chi provasse piacere nel mero versare il sangue potrebbe essere, lui sì, ritenuto un pervertito. Ma, allontanandoci un attimo dal seminato, Elio: tu colui che viene eccitato sessualmente non da una femmina ma da un altro maschio lo ritieni un pervertito? Perché se adottiamo il criterio della “necessità”, allora una gran parte delle attività umane andrebbero condannate….

  3. La necessità la invoco soltanto in rapporto all’uccidere o all’infliggere sofferenza. Non mi è naturalmente dato sapere, caso per caso, in quali dimensioni si realizzi il piacere del cacciatore nella propria attività, però nel caso esso si realizzi nella dimensione dell’abilità tecnica, o anche sia orientata al finale gastronomico, non posso comunque ammirarne l’indifferenza per la parte indubitabilmente violenta e distruttiva. E che questa parte richieda una sorta di “espiazione” o “giustificazione” lo suggerisce il testo stesso.
    Specifico comunque che la mia “condanna” è in questo caso blanda e rassegnata: so benissimo che il sentimento “pacifista” con il quale preferisco immergermi nella natura, ovvero l’illusione di essere temporaneamente fuori dai suoi meccanismi violenti (e assolutamente necessari), si basa su una violenza esercitata a priori – magari da altri ma però anche in nome mio (alludo alla violenza degli allevamenti e dei macelli, e più indietro al peso micidiale della mia specie nell’ecosistema). Ma il punto morale individuale rimane per me la distinzione fra una violenza fatale (e fatalmente rimossa) e una violenza superflua e deliberata.

  4. A mio parere la tua posizione, se assunta rigorosamente, dovrebbe portare al vegetarianismo più puro. L’idea che ogni atto di uccisione sia “violento”, quindi anche quello del pescatore professionale (e pure di S.Pietro e di Gesù) – dal momento che anche la pesca che si fa per professione presenta dei momenti di piacere, basta vedere l’euforia della mattanza del tonno -, senza distinzione della natura dell’ucciso, e quindi dell’uomo dall’animale, non può che portare a conseguenze paradossali. Essa mi pare nel profondo animata da un senso di colpa. Io da questo senso di colpa sono libero.

  5. Tu non ti senti in colpa per quelle uccisioni, ed io una colpa neppure te la facevo. D’altra parte il mio non era lo sviluppo logico di un postulato astratto (uccidere = male) bensì una percezione di carattere emotivo, che trova quindi le sue premesse ad una profondità ben diversa da quelle di un sillogismo: la percezione che le mie immersioni nella natura non trarrebbero alcun miglioramento dalla circostanza di essere orientate ad un’uccisione. Rifiuto quindi le lusinghe del modello proposto dall’articolo, senza per questo dover diventare vegetariano (per me un allevamento in condizioni decenti, anche a scopo alimentare, rappresenta una condizione per nulla diversa, da un punto di vista ontologico, da altri tipi di adattamento, o di nicchie ecologiche, presenti in natura) o dover diventare tanto stupido da disconoscere la differenza fra un pesce ed un essere umano. Entrando però proprio sul piano degli sviluppi logici, trovo sbagliato pensare che tale differenza giustifichi un arbitrio totale da parte dell’uomo sull’animale. Non è tanto quel che succede all’animale, che magari di lì a poco potrebbe venire ucciso, ed anche con maggiore sofferenza, da un suo predatore naturale, ma ciò che da tale atto si riverbera sull’uomo. Perché, mi chiedo attraversando una zona incontaminata ed incrociando qualche bellissimo animale, alcuni miei simili di lì a poco potrebbero abbattermelo, senza che in questo atto sia riscontrabile alcuna necessità sociale od ecologica? Perché, a sostanziale parità di condizioni sociali, essi non risultano “biofili” quanto lo sono io? Ebbene la risposta la trovo soltanto in uno sviluppo caratteriale un poco più sfortunato, secondo quanto spiega meticolosamente Fromm in “Anatomia della distruttività umana”. Cambiando completamente scala, ma non del tutto direzione, e solo per cercare di farmi capire: quando anche si possano rintracciare, nell’astratto, delle ottime ragioni “strutturali” (o, appunto, “culturali”) che spieghino la presenza, in una determinata società, dei boia, dei torturatori, dei sacrificatori eccetera, rimane comunque chiaro che tali “nicchie” ecologiche, tali “lacune strutturali”, verranno prontamente riempite soltanto da tipologie caratteriali abbastanza precise. Ritornando al nostro contesto, ai miei occhi il tuo essere cacciatore è soltanto un piccolo difetto, non tale per esempio da pregiudicare la possibilità di un’amicizia.

  6. Anche ai miei occhi il tuo essere anti-cacciatore è un piccolo difetto.

    A mio avviso, l’attuale sentimento anticaccia molto diffuso in Occidente è appunto tipicamente occidentale (eventuali riferimenti “orientali” sono fuori luogo). Va inquadrato nel “pensiero vittimario” diffusosi dopo la Seconda Guerra Mondiale, che origina da un profondo senso di colpa e che vede l’uomo occidentale (maschio adulto preferibilmente) come persecutore, e altri gruppi (donne, neri, animali, piante) come vittime.

  7. Pur non essendo cacciatore, condivido in pieno la Sua opinione. Nella nostra zona, tra l’altro, l’ignoranza dei sedicenti animalisti in materia si palesata con la questione dei caprioli in eccesso da abbattere, compito affidato dalla ragione dai cacciatori.
    La vera caccia è stata e sempre sarà, amore e rispetto per la natura.

  8. Pensi a tutto il cancan per l’orso “Bruno”, ucciso in Germania dopo che aveva massacrato molte pecore. L’opinione pubblica allora su queste non versò una lacrima. Come non la versa sui polli e i tacchini cui viene inflitta una vita orrenda e breve. Ma di questo riparlerò.

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