Suona cupo il titolo Varuna, che Jiulien Green ha dato a questo suo romanzo del 1936 (ho qui l’edizione TEADUE del 1996, con la traduzione nientemeno che di Camillo Sbarbaro, quella originale, credo per Longanesi – chi l’avrebbe mai detto!). La storia però fa respirare (si fa per dire) il lettore un po’ più liberamente di quanto non avvenga solitamente con gli anossici libri di Green. Sarà forse perché l’atmosfera della prime delle tre storie che costituiscono l’intreccio è un po’ favolosa: medioevo, misteriosi “uomini del mare” donatori di una simbolica catena, il diavolo… Ma nella sostanza Green è sempre Green, e quella catena che passa di mano in mano, inconsutile e viva, attraverso le ere e le generazioni, è l’emblema della colpevolezza umana, e della inesorabilità del destino. È una catena che allude a quella delle rinascite dell’induismo, una catena i cui anelli sono i giri della volta stellata, il dio Varuna. Alla fine non si esce dalla sensazione di soffocamento, di chiusura, che tutte le opere di Green instillano: tutti gli anelli della catena sono perfettamente chiusi, non ce ne sono di mancanti, essa è indistruttibile.

L’ha ribloggato su Brotture.