In Scimmie cacciatrici, di Craig B. Stanford (1999), edito in Italia da Longanesi nel 2001:
La ricetta essenziale che condusse all’espansione del cervello umano comportò l’emergere dell’intelletto necessario alla condivisione intelligente, strategica e consapevole della carne. (p.13)
Il libro di Stanford (non troppo ben tradotto da I. Blum: non si possono chiamare animali da preda gli animali predati anziché i predatori) si inserisce nella notevole produzione attuale di quel gruppo di primatologi che opera al confine con la paleoantropologia. Le ricerche in Tanzania sui bonobo, una sottospecie di scimpanzé molto evoluta, …assestò un duro colpo ai miei valori relativi ad un’etica del comportamento fondata sull’equilibrio fra i sessi. Gli scimpanzé maschi brutalizzano abitualmente le loro femmine, costringendole ai rapporti sessuali e punendole se esse non concedono loro un accoppiamento desiderato. (…) Arrivai a considerare questa società di antropomorfe come una struttura in cui vige la legge del più forte – un modello peraltro diffusissimo anche nelle società umane patriarcali.
Penso che basti questa citazione per far vedere quanto siano problematici i discorsi che si muovono su quel confine. La cosa più interessante che ho trovato nel libro, e che mi riporta in qualche modo al pensiero di Eric Gans da un lato, e a quello di Serge Moscovici dall’altro, si trova a pag. 48. Riguarda la spartizione dei ruoli tra cacciatori e raccoglitrici. Non si va a caccia perché ne derivi molto cibo, ma perché l’uccisione crea prestigio, e quella di un grosso animale, per cui occorre coesione del gruppo e valore dei singoli, è all’origine della narrativa:
Se gli uomini uccidono una giraffa, ne parlano la sera intorno al focolare per un anno, prima di abbatterne un’altra.
Non si raccontano storie sulle bacche o sui tuberi.
