Economy and the Future, di Jean-Pierre Dupuy, è la traduzione in inglese (Michigan State University 2014) di un libro uscito in Francia nel 2012 col titolo L’Avenir de l’économie e con un sottotitolo eloquentissimo: Sortir de l’économystification. Anche il sottotitolo inglese è eloquente: A Crisis of Faith. Questo è un libro apocalittico, per esplicita dichiarazione dell’autore, che parla di un profetico enlightened doomsaying (Pour un catastrophisme éclairé è il titolo di una sua opera del 2002) come unico modo per infrangere la cappa di piombo imposta globalmente da una visione radicalmente distorta del rapporto tra l’economico e il politico, l’economistificazione regnante oggi di cui il libro tratta ampiamente. Alcune citazioni dalla prima parte sono sufficienti a far comprendere come si muova l’argomentazione di Dupuy, che ha tra i suoi punti di riferimento Ivan Illich e René Girard. Nemico del liberismo globale, Dupuy vede nell’Economia (con la E maiuscola) un mostro, anzi un idolo creato dagli umani, al quale essi offrono sacrifici, e a cui la politica vigliaccamente ha scelto di prostituirsi, rinunciando ad ogni sua prerogativa (all’inizio fa l’esempio di Mario Monti…).
«I mentitori, e particolarmente quelli che mentono a se stessi, sono spesso i più abili sofisti. Nel vagliare attentamente il linguaggio della malafede parlato dagli economisti, noi impareremo di più sulle verità nascoste dell’Economia che accettando al suo valore nominale la pretesa che gli economisti stessi avanzano di aver spiegato il mondo per quello che è veramente.» (p. XX)
«L’Economia ha in sé violenza. Si potrebbe dire che la violenza le inerisce. Ma essa agisce anche come una barriera contro la violenza. È come se la violenza trovasse nel commercio e nell’industria i mezzi per limitarsi, e quindi per proteggere l’ordine sociale dal collasso. In altre parole, l’ambivalenza della vita economica in relazione al male rispecchia esattamente l’ambivalenza del sacro rispetto alla violenza. »(p. 11)
«Come si legge in Adam Smith, se noi desideriamo la ricchezza, non è per l’illusoria soddisfazione materiale che essa può dare, ma perché la ricchezza ci porta l’ammirazione degli altri, un’ammirazione fatalmente tinta d’invidia. Inevitabilmente, allora, la pubblica prosperità ha come prezzo la corruzione dei nostri sentimenti morali» (p. 12)
Il comportamento umano—questo è uno dei cardini del pensiero di Dupuy—non può essere trattato come una variabile indipendente, anche perché «Il modo in cui il futuro è descritto e compreso è parte di quello che determina il futuro.» (p. 41)
«Se gli esseri umani fossero razionali nel senso inteso dagli economisti, essi semplicemente non potrebbero formare un’entità politica, perché sarebbero incapaci di porre fiducia l’uno nell’altro o di trattare i loro conflitti in un modo che non sia distruttivo per ciascuno. […] Se gli umani riescono a vivere insieme in società, è solo perché sono in grado di liberarsi del giogo della razionalità economica.»(p. 55)
«Nella sfera economica ogni cosa ha il suo prezzo—anche la politica. Sempre più apertamente oggi l’Economia compra i politici, senza celare nemmeno per un attimo il piacere che prova nel far questo. Talvolta si vanta di essere in grado di fare del tutto a meno dei politici; altre volte si limita ad affidare loro dei compiti minori. (…) Nulla le dà maggior piacere che veder strisciare queste deboli creature, terrorizzate all’idea di fare il minimo passo falso o di fare qualcosa che possa scatenare la sua ira. Ma l’Economia compie un grave errore. Col degradare e neutralizzare la politica essa si priva dei mezzi con cui si potrebbe sollevare sopra la palude del managerialismo nella quale si trova impantanata, senza nemmeno accorgersene. Condannata all’immanenza senza scopo di una gestione aziendalistica, e senza avere alcun altro orizzonte oltre quello del futuro immediato, essa si ritira in se stessa, senza preoccuparsi di offrire ai giovani una ragione per vivere, senza essere toccata dallo spettacolo di intere popolazioni ridotte alla miseria e alla fame. Non più in grado di contenere la violenza, essa baldanzosamente prende per mano il mondo, e lo conduce nel futuro—un futuro ancora più orribile del presente.» (p. 63)