Lettera dal deserto

Lettera dal deserto

Göran Tunström è un grande scrittore, e questo Lettera dal deserto (Ökenbrevet, 1978, trad. it. di F. Ferrari, Iperborea 2011) è il suo testo più audace. L’audacia non sta tanto nello scrivere un romanzo che narra adolescenza e giovinezza di Gesù, ma nel fare dello stesso Gesù la voce narrante. Non c’è qui nulla di devozionale, nulla di convenzionalmente religioso o antireligioso, nulla delle vite di Cristo, nè alcuna volontà di demistificazione: si tratta di un testo narrativo laico, eppure aperto ad una inedita trascendenza: un testo tipicamente tunstromiano. Il Gesù che parla di sé e racconta i suoi anni giovanili è appena stato al Giordano da Giovanni, e ha concluso i suoi quaranta giorni nel deserto. Gli anni della vita pubblica, i tre anni che segneranno la storia del mondo, sono davanti a lui. Ma chi è questo Gesù di Tunström? Non è il Cristo della fede cristiana professata dalle Chiese, e nemmeno un personaggio storico ricostruito nel suo ambiente mediante ricerche accademiche: è un giovane uomo che ha provato tutte le tensioni e le emozioni della sua età (dalla politica all’amore), ma fin dall’inizio è portatore di una straordinaria apertura, un’apertura al mondo e a tutte le creature, e in particolare agli esseri umani. V’è qui dunque, al massimo grado, la dialettica tra apertura e chiusura delle anime, tema fondamentale dell’autore svedese. Gesù è, infine, Apertura, e di fronte a questa sua dimensione tutti gli uomini e le donne con cui viene a contatto sono più o meno chiusi. La stessa Maria, qui, appare una povera donna che non capisce molto del mondo, e tanto meno il figlio. Il cugino Giovanni è un uomo chiuso in una sua visione religiosa risentita, e tuttavia capisce che l’Apertura è in Gesù. Questi, a sua volta, intuisce il senso del suo essere nel mondo solo dopo una serie di dure esperienze, quando i genitori di un bimbo disabile, un essere privo di qualsiasi apparente qualità umana, glielo affidano con un pretesto e spariscono. Lui se ne prenderà cura fino al momento in cui la creatura morirà tra le sue braccia. Attenzione, ancora, qui non mancano i segni del fatto che non siamo realmente nella Palestina di duemila anni fa: c’è un episodio in cui il protagonista è il falso messia Sabbatai, che vivrà secoli dopo, ci sono pomodori, e tacchini, e pure un paio di pantaloni. Qui siamo in ogni tempo, e gli zeloti rivoluzionari cui il giovane Gesù vorrebbe ad un certo punto associarsi sono guerriglieri come se ne vedranno infinite altre volte. Tunström ha voluto scrivere un romanzo sull’Apertura e sulla estrema difficoltà che gli umani incontrano nel praticarla, o anche soltanto nel comprenderne la necessità.

A latere, due punti che mi hanno fatto pensare:

«Crescere significa vestirsi di qualcosa di cui non ci si potrà più spogliare.» (p. 223)

«Un uomo non si libera così semplicemente. Chi si è liberato è solo. Chi si è liberato non può che essere perseguitato, perché è un abominio agli occhi dell’oppresso». (p.224)

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