Dialogo sul senso delle catastrofi

   di Eros Barone

Questa volta, il dialogo fra i due impagabili amici si svolge di pomeriggio, mentre il sole gioca a nascondino con le nuvole, in un parco pubblico ricco di prati ondulati e di alberi nostrali ed esotici da cui salgono e scendono graziosi scoiattoli che sembrano voler approfittare a fini lùdici della pausa che si è venuta a creare nel clima rigido della stagione. Il parco si trova all’inizio della riviera di Levante, è delimitato a settentrione da ripide colline punteggiate di olivi e a mezzogiorno dal mare, la cui superficie, che si intravede al di là delle siepi di pitosforo, fra i rami dei pini marittimi, ha un colore grigio scintillante e appare increspata dal lieve vento di una giornata invernale meno fredda di quelle che l’hanno preceduta.

 Caio: buondì, caro Mevio. Ti vedo seduto sulla panchina, ben protetto dal cappotto, dalla sciarpa e dal basco, intento a leggere lo scritto di un autore a noi particolarmente caro. Si tratta, se non leggo male il nome riportato sulla copertina del libro, di Voltaire?

Mevio: sì, mio caro Caio, è il “Poema sul disastro di Lisbona”, che Voltaire, come saprai, scrisse mentre soggiornava a ‘Les Delices’, una villa presso Ginevra, pochi giorni dopo la catastrofe naturale che colpì, il primo novembre del 1755, la capitale del Portogallo. Dopo il devastante tsunami che nel dicembre del 2004 colpì l’Indonesia e gli altri paradisi esotici delle vacanze invernali di europei e americani, dopo il terremoto che ha investito l’Abruzzo l’anno scorso e, soprattutto, dopo il cataclisma che ha distrutto la capitale di Haiti tre settimane fa, ho ritenuto doveroso interrogarmi, partendo dalla lettura di questo testo, sulle ragioni per cui l’Occidente è letteralmente incapace di ‘pensare’ questi eventi.

Caio: hai ragione. Infatti, è mancato finora un dibattito sul senso di queste catastrofi, così come sul rapporto tra l’uomo e la natura e, per chi crede, sul rapporto tra Dio e il male. Nulla di nemmeno lontanamente paragonabile alla reazione profonda che suscitò nell’opinione pubblica europea il terremoto di Lisbona del 1755. Eppure, se è vero che l’impressione fu molto forte perché ad essere distrutto dall’azione congiunta del terremoto e del maremoto fu uno dei più grandi centri commerciali dell’Europa, una città che, come sùbito affermarono i devoti, meritava di essere punita da Dio perché era corrotta e peccaminosa e nuotava nell’oro brasiliano, è ancor più vero che risulta ben difficile giustificare con l’ottica della nèmesi divina il sisma che il 22 gennaio di questo anno ha distrutto la capitale di Haiti, uno dei paesi più poveri del mondo.

Mevio: in realtà, il poema di Voltaire è il primo grande atto di accusa contro l’ottimismo metafisico e teologico, che lo scrittore francese vedeva incarnato da Leibniz e dalla sua tesi secondo cui il nostro è il migliore dei mondi possibili: non un mondo perfetto, ma il più vicino alla perfezione; non un mondo privo di male, ma un mondo in cui la presenza del male è riscattata e giustificata dall’armonia del tutto. Quindi, era un problema di teodicea, ossia di come si possa giustificare l’operato divino di fronte alla presenza incontestabile del male. Infatti, come aveva già argomentato Epicuro, non si sfugge al trilemma: se Dio non può togliere il male dal mondo, non è onnipotente; se non vuole, non è benevolo; se non può né vuole, non è neppure Dio. Ma se è onnipotente e benevolo, come si deve pensare che sia Dio, perché esiste il male?

Caio: alla luce di queste difficoltà logiche, Epicuro, che tu hai giustamente citato, concludeva negando l’intervento degli dèi nelle vicende naturali e umane: è una posizione definibile come ateismo pratico. Altri pensatori concludono che forse Dio non è onnipotente; altri inferiscono invece che non è onnisciente o addirittura che non è infinitamente buono; altri ancora negano l’esistenza di Dio. Ciò naturalmente non significa che non si possa tener ferma la credenza nell’esistenza di un Dio onnisciente, infinitamente buono e onnipotente. Soltanto che per una tale posizione la ragione, da sola, non basta: occorre la fede.

Mevio: il tuo ragionamento è inoppugnabile. Lo stesso Voltaire, che non ha una risposta a queste domande, sente il dovere di opporsi a tutti coloro che pretendono di dare un senso a ciò che non ne ha. La ragione gli suggerisce un pessimismo scettico, che non esclude però l’unico ottimismo possibile, quello della speranza. Senti questo passo del poema: “‘Un giorno tutto sarà bene’, ecco la nostra speranza; / ‘tutto è bene oggi’, ecco l’illusione”.

Caio: a questo punto, ottimo Mevio, l’impostazione data al problema da Voltaire rischia di condurre, per eccesso di pessimismo, ad una sorta di inerzia, dal momento che la speranza sembra coincidere con la fede e, come suggerisce il ‘principe degli illuministi’, ne condivide il carattere, ad un tempo, illusorio e consolatorio. D’altra parte, se ben ricordo le lezioni di catechismo ricevute durante la mia fanciullezza, la religione cattolica pone la speranza, insieme con la fede e con la carità, nel nòvero delle virtù teologali.

Mevio: l’unica alternativa all’inerzia socialmente conservatrice cui conduce il pessimismo scettico di stampo volterriano, caro il mio Caio, è la rivalutazione della speranza, quale emerge dalla risposta che Rousseau diede dopo aver ricevuto, assieme a Diderot e d’Alembert, una copia del poema: risposta che fu ovviamente sconcertante per l’autore di tale poema. La “Lettera a Voltaire sul disastro di Lisbona” conteneva infatti un attacco durissimo: il pessimismo, osservava Rousseau senza mezzi termini, se lo può permettere chi, ricco e tranquillo, disquisisce di tale tema nei salotti (come Voltaire), ma per i poveri e gli infelici l’idea che esista un mondo guidato dalla provvidenza è l’unica consolazione.

Caio: nella posizione di Rousseau mi sembra, tuttavia, più apprezzabile l’attacco al pessimismo dei ‘beati possidentes’ che non l’apologia della divina provvidenza…

Mevio: d’accordo. È però interessante il modo in cui Rousseau imposta la questione, quando afferma che il problema non è Dio, ma l’uomo. La tesi che sostiene lo scrittore ginevrino è che la maggior parte dei mali naturali da cui siamo afflitti sono prodotti da noi stessi. Se ci pensi bene, Voltaire è ancora legato alla tematica classica della teodicea, mentre Rousseau esprime un punto di vista nuovo. Un punto di vista che, promuovendo la progressiva laicizzazione della speranza, ha condotto l’umanità a prendere coscienza del rapporto fra la natura e la società, realizzando e applicando, con l’aiuto della scienza e della tecnologia moderne, quei sistemi di prevenzione che permettono di controllare gli eventi naturali e di ridurne al minimo le conseguenze potenzialmente micidiali per l’uomo. La nostra laica e razionale speranza ha oggi questo nome: controllo sociale sull’uso della scienza e della tecnica per prevenire e minimizzare le conseguenze delle catastrofi naturali sulla vita di tutti gli uomini. All’origine di questa diversa ottica vi sono, per ragioni che possono essere considerate dialetticamente complementari, sia la tesi pessimistica di Voltaire, che colpisce l’ottimismo metafisico e teologico, sia la tesi umanistica e sociale di Rousseau, che colpisce il lato nichilistico e aristocratico di quel pessimismo.

Caio: possiamo allora, stimatissimo Mevio, trarre dalla nostra discussione odierna la seguente conclusione: che il terremoto di Lisbona è stato un vero spartiacque nella nascita dell’età moderna, perché fu l’ultima volta in cui la provvidenza divina e la teodicea furono poste al centro di un dibattito pubblico in cui si impegnarono le menti più notevoli del tempo, ma fu anche l’ultima appassionata protesta contro l’ingiustizia divina. Un’ingiustizia che viene, fra l’altro, esplicitamente rivendicata in quel versetto del vangelo che recita così: «A chi ha sarà dato e sarà nell’abbondanza, e a chi non ha sarà tolto anche quello che ha». Il tragico destino di Haiti (così come l’immediato intervento militare statunitense nell’isola caraibica) non è forse una perfetta esemplificazione del contenuto di questo passo evangelico?

Mevio: in effetti, mio caro Caio, quel versetto, comunque lo si interpreti, è paradossale. Sennonché, riprendendo le tue conclusioni, possiamo ricavarne questo importante corollario: la questione della giustizia (o dell’ingiustizia) divina è divenuta intellettualmente irrilevante nella tradizione culturale che si è storicamente affermata, anche se, di fronte all’analfabetismo etico di massa e al silenzio teologico, che dòminano l’Occidente, meriterebbe forse di essere ripresa da coloro che hanno la responsabilità della educazione religiosa dei credenti e riproposta nel dialogo con i diversamente credenti e con i non credenti. È comunque indubitabile che dalla metà del Settecento in poi la responsabilità delle nostre sofferenze è stata cercata esclusivamente negli uomini e nel modo in cui essi, da un lato, organizzano la loro vita sociale e, dall’altro, gestiscono quello che il filosofo di Trèviri chiamava “il ricambio organico con la natura”.

 

Eros Barone

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