Simone Weil, perduta nel tumulto della Seconda Guerra Mondiale, credette di trovare una risposta retrospettiva nei greci e nello stesso Omero che era stato detto “il maestro della Grecia”. Essa chiamò l’Iliade “il poema della forza”, poiché, specchio possente e chiaro della condizione umana, esso mostrava la Forza al centro della storia umana, senza inani consolazioni. Morte per i vinti, nemesi per il vincitore: sono questi i due membri dell’equazione. Il rigore geometrico dell’espiazione che segue all’abuso della forza fu il tema principale del pensiero greco e perdurò ovunque questo si era affermato.

Eppure, l’uomo occidentale, erede della tradizione giudaico-cristiana, l’ha perso e in modo così completo che non esiste in alcuna lingua occidentale una parola per esprimerlo. Le idee di limite, di misura, di commensurabilità che guidavano il pensiero dei saggi sono sopravvissute unicamente nella scienza greca e nella catarsi della tragedia. Questo sembrò marcare il confine della comprensione. E’ una strana verità, nota Simone Weil, che gli uomini di oggi siano geometri solo nei confronti della materia. Si sa invece che Platone, nella sua famosa lezione sul Bene, andata perduta, si fondava su dimostrazioni geometriche. Così avveniva in Grecia fin dal principio: non solo la statica etica del cosmo di Anassimandro, ma l’intera teoria pitagorica avevano come fondamento le tre scienze matematiche per eccellenza: numero, musica, astronomia. Qui stava il saldo cuore della verità su cui può poggiare il Bene, tutto il resto riguardava gli ingegneri. Anche in Tucidide c’è una sorta di reductio ad absurdum; essa dimostra che se anche i greci non erano meno infelici in vita di noi, pure la grande idea epica resta: nessun odio per il nemico, nessun disprezzo per la vittima. Erano le misure del cosmo a dispiegare i fatti. La Forza, la Necessità, deve essere concepita come interna a un ordine. Le parole cruciali sono ancora quelle del Timeo (48 a): “La Ragione prevalse sulla Necessità persuadendola a condurre verso il meglio la maggior parte delle cose che divengono”. Troviamo qui espressa un’idea grandiosa: questo era il punto fino a cui poteva giungere la mente senza rinunciare a dare un senso alla realtà, era il limite del pensiero accettato dai greci; e per originale che fosse la loro mente, si potrebbe dire che il loro patrimonio venne costruito indistruttibilmente dall’eredità delle Misure arcaiche. L’uomo è ora andato oltre questo limite e ha usato il potere miracoloso della matematica per conquistare la materia, è penetrato fin dentro il nucleo dell’atomo, si è spinto fino alle nebulose extragalattiche. Ma ha ragione Simone Weil: l’uomo è geometra solo nei confronti della materia e dell’energia. Il resto lo si deve lasciare agli eventi e alle probabilità, alla fisica della polvere. L’uomo resta con gli occhi fissi su ciò che, nel suo stesso ordine di idee, è la negazione del pensiero: il fait accompli. Le conseguenze di questa geometria sono addirittura impensabili; gli uomini, a tentoni, timorosi, si muovono attorno a corollari grevi di fato, quali “informazione” o “overkill“, che si trasformano sotto i nostri occhi in faits accomplis. La visione storica del passato non si presta alla contemplazione. Ma l’uomo, cercando attraverso il contrasto di costruire la propria esperienza del vero, scopre che la verità si scontra con la sua antica fede nella continuità. I pronostici scientifici si discostano dalle “catastrofi istantanee”, a livello subatomico, s’infrangono contro il perpetuo risorgere della falsificabilità. Tutto ciò che è espressione artistica autentica, ripulita del suo contesto, si disperde in un continuo variare di stili, di reazioni, di accadimenti e scoperte; non più nemmeno il presente specioso, bensì l’istante frantumato è per noi il nunc del Tempo.
Da Giorgio De Santillana, Il mulino di Amleto. Saggio sul mito e sulla struttura del tempo, Adelphi, Milano 1983, trad. A.Passi