Il sarto di Ulm

“Il sarto di Ulm”: la storia del Pci narrata da Lucio Magri

di Eros Barone

    Il saggio di Lucio Magri sulla storia del Pci nel secondo dopoguerra (“Il sarto di Ulm. Una possibile storia del Pci”, il Saggiatore, Milano 2009) rivela, in primo luogo, una grande capacità narrativa, che prende forma e corpo attraverso lo stile che caratterizza la scrittura dell’autore. Uno stile grazie al quale, per usare la formula adoperata dal grande critico letterario Francesco De Sanctis, “la forma è la cosa stessa”. Questo stile esprime infatti una forma peculiare di rigore, fondata su una vera e propria “disciplina della memoria”, che consente a Magri di coniugare in modo originale, senza compiere alcuna forzatura, il carattere soggettivo della sua autobiografia politico-intellettuale con l’oggettività di una ricostruzione storica robustamente documentata.

   Da questa sintesi di forma e di materia, di oggettivo e di soggettivo nascono, fra l’altro, momenti di grande felicità espressiva, come accade con la plastica rappresentazione della ‘svolta della Bolognina’ (1989), il famoso incontro svòltosi a Bologna fra il segretario nazionale del Pci e alcuni partigiani, da cui prese avvìo il processo che portò due anni dopo allo scioglimento del partito. Un incontro che Magri descrive attraverso un calco tanto elegante quanto ironico dell’episodio manzoniano della monaca di Monza, riferendo in questi termini la risposta data da Achille Occhetto a un giovane redattore dell’“Unità” che gli domandava maliziosamente se intendesse cambiare il nome del partito: “E lo sciagurato rispose: ‘Tutto è possibile’”. Un autentico ritratto di questo personaggio, che, con il lampo inesorabile di un ‘flash’ etico-politico, lo consegna per sempre alla storia delle figure micromegasiche di questi ultimi due decenni della storia italiana (da Berlusconi a D’Alema, da Bossi a Di Pietro).

   Un altro efficace sintagma coniato da Lucio Magri, che vale la pena di evocare in questa sede, è quello che egli definisce come il “genoma Gramsci”: un fattore teorico che ha connotato in profondità la storia del Pci. Va detto tuttavia, a questo proposito, che, se è vero che il “genoma Gramsci”, grazie anche alla grande operazione politico-culturale condotta da Togliatti con la pubblicazione dei “Quaderni del carcere”, ha segnato l’identità del Pci, è altrettanto vero che esso è stato nel contempo sottoposto ad una curvatura interpretativa di carattere storicistico che ha finito con l’oscurare, sulla base di quella lettura canonica, il Gramsci che scrive le note di “Americanismo e fordismo” ed elabora categorie dotate di alto potenziale conoscitivo ed euristico, come quella di ‘rivoluzione passiva’. Questo aspetto del “genoma Gramsci”, sostiene Magri, poteva permettere al Pci di comprendere e affrontare meglio, sul piano strategico, i problemi che si posero negli anni sessanta e settanta e lo stesso movimento del ’68, e può ancor oggi rivelarsi particolarmente utile nella disàmina dei fenomeni economici, politici, sociali e ideologici indotti dalla globalizzazione. Quando Gramsci, negli anni trenta del secolo scorso, analizzando la ristrutturazione dei rapporti di produzione, rilevava la capacità del capitalismo non solo nel passivizzare le masse lavoratrici frantumandole e scomponendole, ma anche governandole attraverso la trasformazione reazionaria delle istituzioni (quindi attraverso il fascismo e il nazismo), elaborava, per l’appunto, quella categoria di ‘rivoluzione passiva’ di cui lo stesso Pci avrebbe potuto avvalersi con profitto negli anni sessanta.

   E qui Magri ricorda l’accusa di intellettualismo che fu mossa dal gruppo dirigente del Pci al suo intervento nell’importante convegno sulle “Tendenze del capitalismo italiano” promosso dall’Istituto Gramsci nel 1962 anche dietro diretta sollecitazione di Giorgio Amendola: intervento in cui Magri, facendo uso della categoria critica della ‘rivoluzione passiva’, richiamava l’attenzione del partito sul problema politico della diffusione del consumismo neocapitalistico nella società italiana degli anni sessanta. Non può pertanto sfuggire l’attualità di una tale categoria in una fase storica in cui il processo totalitario di sussunzione e colonizzazione della vita quotidiana da parte del capitale, le cui prime manifestazioni erano state acutamente (e in un modo tutt’altro che intellettualistico) individuate da Magri all’inizio degli anni sessanta, è stato condotto alle estreme conseguenze.

   Né può essere evitata, a partire da questo approccio analitico-interpretativo, la domanda radicale su come si ponga oggi il problema della costituzione politica della soggettività di fronte a un capitalismo che, come quello del ventunesimo secolo, sembra capace di uccidere, fin dal suo sorgere, ogni forma duratura di soggettività politica alternativa. I movimenti di massa che si dissolvono, le vertenze sociali anche rabbiose che si esauriscono dopo alcune fiammate, la degenerazione tra ‘spettacolare’ e oligarchica della stessa sinistra, tutto ciò sembra confermare la potenza devastante di un capitalismo feroce e distruttivo, in cui non solo gli individui umani producono merci, ma anche le stesse merci producono individui umani ad esse conformi. Sennonché Magri, già nel documento elaborato in occasione del convegno di Arco del 1987, con forza profetica poneva il problema in questi termini: come è possibile che il capitalismo sia vincente, se non è più in grado di produrre benessere, tranne che in poche isole, e genera invece una sofferenza sociale immensa, senza confini e senza termine? La ragione è che questo sistema di produzione e di scambio frantuma, divide e rende mute le sue vittime, quando non riesce a illuderle, ricorrendo alla potenza dei simboli e dell’immaginario, di partecipare ai suoi benefìci. Ancora una volta, Magri, utilizzando la nozione di ‘rivoluzione passiva’ nella ricognizione della fase storica, non solo riusciva a coglierne il tratto dominante, ma giungeva anche a porre la premessa maggiore di un ragionamento critico radicale sui limiti insuperabili della democrazia borghese e sulle conseguenze che essa produce: la deriva populistica e plebiscitaria di questo ‘ventennio azzurro-verde’.

   Solo il paradigma del ’68, fondato sull’irruzione della politica nella vita quotidiana (paradigma da cui ha tratto origine lo stesso movimento femminista), potrebbe oggi rappresentare l’alternativa alla totale colonizzazione della vita (e alla crescente degenerazione della sua qualità) prodotta dalla schiacciante prevalenza degli ‘spiriti animali’ del capitalismo. D’altra parte, occorre riconoscere che mai come oggi la realtà sociale e antropologica sembra essere così distante e diversa dal contenuto e dall’ispirazione di un sìmile paradigma, che richiederebbe, per essere posto in atto, una sinistra capace di aderire a tutte le pieghe della società, quale fu quella organizzata dal Pci che Magri descrive e racconta nel suo saggio: quindi una sinistra, per usare un termine gramsciano, ‘molecolare’, laddove la sinistra che ci viene imposta dalla ‘rivoluzione passiva’ del capitalismo è, come il modello oligarchico e personalistico che tende a imitare, una pura sinistra ‘spettacolare’. In conclusione, quantunque il suo tema sia la storia di una sconfitta, questo bel libro di Magri non cancella nichilisticamente la speranza che l’umanità torni a riaprire la via della trasformazione del mondo, ma ripropone questa speranza, che è inestinguibile, in una forma lucidamente razionale e criticamente avvertita, giacché è vero che nel 1592 il sarto Albert Ludwig  Beblinger  morì sul sagrato della cattedrale di Ulm collaudando un suo primitivo deltaplano e che, come scrive Bertolt Brecht nell’apologo da cui è stato mutuato il titolo di questo saggio storico, il vescovo sentenziò: “Mai l’uomo volerà”, ma è anche vero che l’uomo oggi vola.

 

 

 

Un pensiero su “Il sarto di Ulm

  1. Confesso di non aver mai sopportato i Lucimagri, le Rossande e la loro prosopopea. Hanno sempre sbagliato tutto, non hanno mai capito quello che succedeva, e mai che abbiano fatto i conti con i loro errori.
    Forse l’unica cosa giusta che ha fatto Toni Negri è stata proprio dare dello “sciatore” a Lucio Magri (Milano, vigilia del 12 dicembre 1971).
    Che poi scriva bene, mah…
    Saluti
    Stefano

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