Orme nel cielo

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Saga familiare che veramente ha il diritto di chiamarsi saga, questo Orme nel cielo di Einar Már Gudmundsson (Fótspor á himnum, 1997, trad. it. di Fulvio Ferrari, Iperborea, Milano 2003). Una tipica postmodernità della costruzione (con l’incrociarsi continuo dei piani temporali tra i brevi capitoletti) si unisce ad un linguaggio scarno, con poche concessioni allo psicologismo. Come rileva il traduttore nella sua postfazione, quest’opera si inscrive in quel numero di romanzi nordici che ri-presentano il mondo della fame, che sembra oggi remoto ma è dell’altro ieri: in Islanda, nella Scandinavia, nella campagna padana. Incastrati nella narrazione troviamo relitti preistorici, come la storia della donna-foca, che ci fa pensare alla fanciulla-cigno del romanzo di Leena Lander La casa del felice ritorno. Tutte le storie di uomini-animali che ad un certo punto abbandonano la loro pelle e la riprendono, o la perdono per sempre, rimandano ad un passato sacrificale, in cui il debole confine tra l’umano e l’animale è attraversato e riattraversato, e l’evento di espulsione violenta o di sacrificio è travestito nel mito come accaduto per intervento di forze impersonali o soverchianti (come il fiume, il mare, ecc.).

Al sanatorio, Ólafur raccontò a Gudný la storia di suo nonno Magnús Árnason: una bellissima notte d’autunno, quando il chiaro di luna si cullava sulle onde e le stelle del cielo brillavano come lampadine, camminava sulla riva ingioiellata di lava, dove frequentemente si incontravano le foche.Tutt’a un tratto si trovò davanti all’entrata di una grot­ta e sentì venire da dentro i suoni allegri di una festa, fuori dalla grotta erano distese delle pelli di foca. Ma­gnús raccolse una di quelle pelli e se la portò via, tornò a casa e la chiuse in una cassa, poi andò a letto, ma non riuscì ad addormentarsi.Ogni volta che stava per prendere sonno si ritrovava all’ingresso della grotta e rabbrividiva al freddo della notte autunnale. Così uscì di nuovo, nell’oscurità. Le stelle erano scomparse, e anche il chiaro di luna. All’ingresso della grotta le pelli di foca non c’erano più, c’era un gran silenzio, una donna nuda stava seduta su un sasso e piangeva. Ma­gnús la accompagnò a casa, la confortò e la scaldò.Così passarono i giorni. Così passarono le notti.
Ma­gnús e la donna, che si chiamava Erla, si sposaro­no ed ebbero quattro figli, due femmine e due maschi. A Erla piaceva scendere al mare con i bambini. Nei suoi occhi c’era uno sguardo che guardava lontano, i capelli fluttuavano come onde e il mare le schiumava nelle vene.
Un giorno Erla non si sentiva bene ed era stanca, e Ma­gnús andò in chiesa con i bambini. Quando tornò a casa trovò aperta la cassa, la pelle era scomparsa insieme alla donna. Vennero giorni bui, senza squarci di sereno e senza luce. Un giorno, poco più tardi, i bambini stavano ritornando da Reykjavík0, tutti tranne Haraldur che era in barca con suo padre.
“Conoscevano un punto dove si potevano tirare a riva le barche, nella loro campagna, sul promontorio”, disse Ólafur, “e lì la loro mamma andava a fare il bu­cato.”
Un ruscello entrava nella baia e si spingeva in mare. I1 ruscello ora era in piena. Correva veloce, color ruggi­ne, e trascinava con sé pezzi di ghiaccio. Aveva nevicato molto ed era tempo di disgelo. I bambini cercarono di attraversare il ruscello, ma l’impeto della corrente li afferrò e li scaraventò in mare.
Ma­gnús, il proprietario terriero, era fuori di sé. Pian­geva a dirotto, il suo dolore era terribile. Diceva che sua moglie era una balenottera nel mare e i suoi figli tre cuc­cioli di foca. Ma­gnús si lasciò sfuggire la terra dalle mani e si ridusse quasi a chiedere l’elemosina. Allora Haral­dur, suo figlio, raccolse le proprie cose e andò ad abitare nella casa di torba all’approdo di Grandi.
Il nonno raccontava spesso questa storia alla nonna. Ogni volta era più rifinita ed elaborata. Quando stava per morire guardò in direzione della nonna senza vedere altro che contorni confusi, sorrise debolmente e disse:
“Può darsi che mia nonna viva negli abissi del mare, ma non ha nessun senso venirci a dire che abbiamo occhi da foca: le foche hanno occhi umani”
(pp. 182-184)

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