Gatsby

zab.jpg

L’ “idealismo” di Gatsby, il protagonista del Grande Gatsby, il celebre romanzo di Fitzgerald, è espressione del “pensiero positivo” indispensabile al dinamismo della vita americana. Questo ha sostenuto Stephen L. Gardner al convegno girardiano di Innsbruck del 2003 nel suo intervento Democracy and Desire: The Theology of Money in The Great Gatsby.

 http://theol.uibk.ac.at/cover/events/innsbruck2003_Gardner_Paper.doc .

Tuttavia, v’è da pensare che un “pensiero positivo” sia necessario al dinamismo di ogni società contemporanea, non solo a quello della vita americana, e che ove prevalga il “pensare negativo” non possa che esservi stagnazione e inerzia. D’altra parte il “pensare positivo” è assolutamente anti-filosofico, sia nel senso della totale avversione ad ogni prospettiva metafisica, sia nell’altrettanto forte disgusto per ogni forma di critica. Come il pensiero critico possa convivere con un tranquillo procedere della produttività tardo-capitalistica nelle società tecnotroniche dell’Occidente, tra le quali è bene o male inserita la terra d’elezione della telefonia mobile, l’Italia, è problema apertissimo. Questo io so con certezza, che la scuola italiana di oggi mal si presta a favorire lo sviluppo di un razionalità critica negli studenti. E ciò anzitutto perché essa tende a reprimerla negli insegnanti, laddove si manifesti in gruppi più o meno sparuti di questi, o in singoli individui isolati.

In un passo del testo di Gardner leggiamo quanto segue.

È il semplice rifiuto di riconoscere che dei limiti insuperabili sono parte della condizione umana. Nella sua essenza, è la negazione gnostica del corpo sia sul piano simbolico sia su quello della realtà: cioè una negazione di qualsiasi ordine naturale. L’idea di possibilità illimitate, la magia di trasformazioni e rinnovamenti senza fine; l’abrogazione del passato, la rinascita del sé – queste idee usate per richiedere l’intervento soprannaturale della grazia, nell’economia spirituale della vita americana vengono incapsulate nella promessa di ricchezza favolosa e di beni quali auto e cosmetici offerti dall’economia consumistica. Questa economia non è guidata da bisogni naturali e sociali, né da piaceri, soddisfazioni, comfort e convenienza di specie ordinaria. Piuttosto, essa è guidata dal bisogno di definire se stessi mediante le cose che conferiscono alla gente l’immagine di sé. Queste merci ci promettono di renderci interamente padroni del nostro essere.

È chiaro che l’immagine del sé che è conferita dalle cose (l’automobile di lusso piena di tecnologia, il videofonino dell’ultima generazione, ecc.) va pensata come socialmente mediata. Il riconoscimento sociale del valore di certe merci è quello che le rende appetibili: come ciò che sancisce il valore sociale dell’individuo. Sono in gioco, come sempre, fattori mimetici. Ogni preadolescente, ogni adolescente, brama il riconoscimento sociale. Ne ho la riprova ogni anno, perché ogni anno in prima liceo do un tema sul conformismo, e gli studenti dicono tutti sempre la stessa cosa, usando più o meno le stesse espressioni. Il terrore di ogni ragazzo e ragazza è l’emarginazione, la condizione di solitudine e isolamento, la non appartenenza ad un gruppo. La “padronanza del proprio essere” può esistere solo se essa stessa è riconosciuta dagli altri. Mi ricordo certi libri di testo degli anni Settanta, che svolgevano pagina dopo pagina una forte critica del consumismo: quanto sono stati fatti lavorare su questa critica gli studenti delle elementari e delle medie, in quegli anni! Mi piacerebbe che si facesse una ricerca su : la scuola degli anni Sessanta e Settanta e la sua lotta al consumismo. Se ne vedrebbero delle belle, credo (magari questa ricerca è stata fatta, ma non ne sono a conoscenza). Dal mio ristretto angolo visuale, dovrei concludere che tutto il lavorio di generazioni di insegnanti per formare menti critiche della società dei consumi è fallito. La possente, fantascientifica antenna per videofonini che da poco si innalza superba a duecento metri dalla mia scuola, e che invade lo sguardo di chi contempli l’esterno dalla sala insegnanti, cui corrisponde il furore digitativo delle masse studentesche, è il monumento di questa catastrofe culturale. Non me ne lamento: forse la consumer society è la migliore società che sia mai esistita, come postula Eric Gans, e come anch’io sono incline a pensare. Di una cosa sono sicuro, in ogni caso: del consumismo si può essere critici radicali credibili solo se si vive una vita sottratta alla sua logica. I docenti di quegli anni lontani, che pagavano le rate dell’auto mentre insegnavano agli allievi gli orrori della catena di montaggio, non la vivevano.

5 pensieri su “Gatsby

  1. Il fallimento della critica al consumismo sarebbe una riprova della sua bontà?
    Potrei risponderti con una frase di Philip Marlowe (il famoso investigatore creato dalla penna di Chandler):
    – Vendere il peccato è facile –

  2. La critica di quegli anni è fallita, questo è un dato evidente. Occorre vederne i perché. Se continuerà ad essere la stessa critica, ovvero un’espressione del risentimento di quella parte dei ceti intellettuali che sentono di avere meno parte della torta (intesa come centralità) di quella cui pensano di avere diritto, la critica non farà molta strada. Più che di intrinseca bontà della società dei consumi, penso che si possa parlare del minor male costituito, rispetto alle altre forme possibili, dal libero mercato che vi è connesso. Si tratta sempre di realtà storiche transeunti, e sfaccettate. Il consumismo è strettamente connesso alla gestione del risentimento sociale, la circolazione delle merci facilita la circolazione del risentimento, impedendone gli ingorghi che determinano gli scoppi di violenza. Ma nessuna struttura socioeconomica è in sé perfettamente buona.

Lascia un commento