Postverità e altri enigmi

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Mi ha sempre stupito l’uso corrente del mito greco di Narciso, il giovane il cui desiderio è proiettato unicamente su se stesso, tanto che l’unica cosa che l’innamora è la sua stessa immagine riflessa. Il Narciso mitico non cerca di suscitare, in alcuna forma, il desiderio altrui, tanto che non cura minimamente quello della ninfa Eco, che finisce per consumarsi d’amore. Non è un caso che nella seconda delle tre dissertazioni di cui si compone il libro di Maurizio Ferraris, intitolata Dal capitale alla documedialità, il filosofo si imbatta in Narciso trattando del bisogno di riconoscimento, senza il quale l’attuale sviluppo dei social sarebbe del tutto incomprensibile.
«… non c’è nulla di più erroneo (e, come spesso accade, di pesantemente moralistico) dell’interpretazione dei selfie come narcisismo. Narciso si specchiava e si appagava di questo. Chi si fa un selfie, invece, lo fa per pubblicarlo, e il suo obiettivo non è affatto l’autoappagamento, bensì il riconoscimento da parte del massimo numero possibile di altri esseri umani. Più che un piacere, abbiamo a che fare con un dovere, stretto parente di quella responsabilità che (…) indicavo come un carattere fondamentale degli umani: pubblicare la propria foto, non diversamente dal rispondere alla perentoria domanda “dove sei?”. Non è autoappagarsi narcisisticamente, bensì rispondere a una ingiunzione sociale». (pp. 107 -108)
Le prime due dissertazioni hanno più il carattere della pars destruens, e come tali sono sapide, pungenti e comunicative. La terza, intitolata Dalla postverità alla verità, per essere pienamente apprezzata richiede al lettore un di più di preparazione filosofica (comunque, leggere il libro senza sapere nemmeno lontanamente cosa siano ermeneutica, filosofia analitica, ecc. non è possibile).
Seguire una intelligenza di prim’ordine alle prese coi caratteri fondamentali della nostra epoca è un piacere intellettuale profondo. L’ho provato con questo libro, e ne godo ancora.

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