The Ambivalence of Scarcity and Other Essays di Paul Dumouchel (Michigan State University 2014) è una raccolta di saggi scritti in un lungo lasso di tempo, a partire dal 1979. Di estremo interesse ho trovato l’analisi della fondazione storica dell’idea di scarsità dei beni, che regola l’intero impianto dell’economia e delle società occidentali a partire dal Settecento, e che ha immense conseguenze sul piano sociale e politico. Il libro di Dumouchel è molto stimolante dal punto di vista intellettuale, e sollecita un pensiero critico indipendente e libero dai pregiudizi di ogni tipo. Riporto qui le ultime righe dell’ultimo capitolo della Conclusione, intitolato L’autorità morale dello Stato.
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L’individualismo significa anzitutto che noi siamo agenti indipendenti, non legati l’uno all’altro da obbligazioni personali reciproche di solidarietà. In secondo luogo, significa che noi siamo liberi nel senso implicato dalla moralità moderna dell’auto-governo, e quindi possiamo mancare di adempiere agli obblighi morali che ci competono senza patire alcuna sanzione. In terzo luogo, l’individualismo significa che noi siamo eguali, nel senso che deriva dall’aver trasferito allo Stato l’autorità unica di decidere tra violenza buona e violenza cattiva. Di conseguenza, noi siamo eguali in quanto siamo liberi e indipendenti nel modo che è assunto dalla teoria economica. L’individualismo infine implica che la reciprocità riappaia solo al livello dello Stato, al livello in cui è determinato ciò che costituisce violenza legittima. Qui è il luogo in cui l’universalità caratteristica dell’individualismo è chiusa. Al livello dello Stato, dove la reciprocità riappare come una dimensione fondamentale delle regole della solidarietà, le regole della solidarietà diventano applicabili e sono nel contempo esclusive e condizionali. Noi non dobbiamo la stessa solidarietà ai non connazionali che non appartengono allo schema di reciprocità che caratterizza noi come membri di questo o quello Stato. Inoltre, nei contesti internazionali, nelle nostre relazioni con gli stranieri, spesso perfino le obbligazioni morali, come la veridicità e il mantenimento delle promesse, tendono a essere condizionali rispetto alla risposta del beneficiario. Esse richiedono reciprocità, e di conseguenza perdono la libertà e il carattere incondizionato che le rende propriamente morali.
Il monopolio statale della violenza legittima è la fonte da cui discende quello che noi chiamiamo moralità: le libere obbligazioni, la trasgressione delle quali non comporta immediatamente sanzioni, può esistere solo alla sua ombra. L’etica è un prodotto dello Stato moderno, come lo sono i mercati della economia moderna. Il recente allontanamento dall’obbligazione come categoria morale centrale potrebbe essere visto come liberatorio, ma esso è anche legato ad una naturalizzazione dell’etica, alla sua trasformazione in scienza, cioè a dire in una autorità che si colloca al di fuori della discussione democratica. La profonda trasformazione dello Stato moderno di cui siamo testimoni non è connessa per accidente al presente fallimento dei meccanismi del mercato. I mercati finanziari che sfuggono al controllo dei singoli Stati sono arrivati a dominare l’economia mondiale, ma come recentemente ha notato André Orléan, i mercati finanziari non soddisfano le condizioni necessarie per potersi auto-regolare. Eguaglianza e libertà sono due realizzazioni molto fragili e imperfette dello Stato moderno, che dipende dal violento meccanismo di trasferimento che fonda il suo monopolio della violenza legittima, la sua capacità di distinguere tra la violenza buona e quella cattiva. L’attuale metamorfosi dello Stato moderno minaccia queste conquiste: essa sta anche progressivamente ma chiaramente mutando la nostra relazione con la violenza legittima. Stati modello di virtù democratiche, come il Canada e il Regno Unito, hanno di recente deciso che l’evidenza ottenuta mediante tortura può essere accolta nei processi come legale. Non vi è ragione di credere che ciò costituisca un progresso. (pp. 348-349)