È uscito Non è un paese per vecchi, il film che i Coen hanno tratto dal romanzo di McCarthy. Avevo capito, come altri, leggendo la storia a suo tempo, che era stata scritta per il cinema. Avevo scritto questa nota:
No Country for Old Men (Alfred A. Knopf, New York 2005): il titolo è una negazione, molto dura, che evoca una condizione di totale assenza di pietà. Nella critica internazionale, sull’ultimo romanzo di Cormac McCarthy si legge essenzialmente questo: che vi è un impasto linguistico con molto Sud-Ovest, una narrazione che procede irregolare, a strappi, lasciando il lettore spesso sconcertato. Che è una storia con molti morti, quasi una macelleria, ambientata intorno al 1980, e chiaramente concepita per il cinema (non si diceva anche per altri, decenni fa, come ad esempio per Graham Greene?). La violenza, in effetti, è massicciamente presente. Ci poteva non essere? Sappiamo che per McCarthy essa è il male, come per René Girard. Ci sono tre personaggi che si dividono gli onori della scena, gli altri essendo mere comparse. Un killer di professione, Chigurh, che sembra credersi l’angelo della morte; un cow-boy, Moss, in ritardo sui tempi storici (come i protagonisti della Border Trilogy), che è stato in Vietnam; uno sceriffo anziano, Bell, che si sente responsabile della vita dei concittadini, e pare agire in forza di principi morali, ma ha nel suo passato di guerra (la Seconda) qualcosa di oscuro. Lo sfondo della storia è dato dal narcotraffico dilagante, col suo corteo di massacri sul confine col Messico, alimentato dal crescente consumo degli Americani. E la presenza di Mammona, il denaro, anzitutto come borsa piena di soldi che, durante una battuta di caccia all’antilope (residuo dei tempi antichi e rimando ad altre remote storie, come i pittogrammi – p. 11 – di arcaici cacciatori), Moss trova su un veicolo coinvolto in un conflitto a fuoco fra trafficanti di droga. Moss non resiste alla tentazione di appropriarsi di quei dollari. Non può evitare di pensare che potrebbero dargli la felicità, e questa è l’origine delle sventure sue e di altri. Chigurh è uno che gioca con la morte, degli altri e di sé, che pur sempre incombe (è ferito due volte). Uccide senza alcuno scrupolo, senza alcun senso del male, spesso dopo aver conversato con la vittima, aver filosofato con essa. Circa questo punto, è stato osservato come in McCarthy siano proprio i personaggi più violenti e malvagi quelli più portati alla riflessione rigorosa, alla visione del mondo che pretende l’assolutezza, escludendo il dubbio. Su tutti campeggia il gigantesco Giudice di Meridiano di sangue, del quale Chigurh è, in fondo, solo un pallido avatar. Il mondo del West di un secolo e mezzo prima non era migliore del presente, ma la grandezza nel male del Giudice è infinitamente superiore alla meccanica freddezza di Chigurh. Questi uccide molti, ma senza alcun odio per quelli che elimina, piuttosto con l’indifferenza di un Tristo Mietitore. Il suo è il freddo gioco di un destino agito da un Dio impassibile, la sua indifferenza affonda nelle radici metafisiche della violenza, che secondo McCarthy non ha spiegazione, meno che mai sociologica. Ecco l’esecuzione di un personaggio, Wells, descritta con una sobrietà intensissima, una concentrazione tipicamente maccartiana.
He did close his eyes. He closed his eyes and he turned his head and he raised one hand to fend away what could not be fended away. Chigurh shot him in the face. Everything that Wells had ever known or thought or loved drained slowly down the wall behind him. His mother’s face, his First Communion, women he had known. The faces of men as they died on their knees before him. The body of a child dead in a roadside ravine in another country. He lay half headless on the bed with his arms outflung, most of his right hand missing. Chigurh rose and picked up the empty casing off the rug and blew into it and put it in his pocket and looked at his watch. The new day was still a minute away. (p. 178)