Shivà sono i sette giorni di lutto che gli israeliti osservano per il padre, la madre o un fratello. Durante questi sette giorni si sta in casa, ricevendo parenti, vicini e amici della persona scomparsa. Il romanzo di Lizzie Doron C’era una volta una famiglia (2002, trad. di S. Vogelmann, Giuntina 2009) è il racconto di una shivà, quella della narratrice per sua madre, a Tel Aviv. Durante questa shivà, raccontata giorno per giorno, compaiono numerose figure che evocano il passato della protagonista e della madre. Una madre che viene dal mondo di là, quello in cui è avvenuta la Shoah, mentre la figlia è nata qua, in Israele, è una sabra.
Accogliere nuovi immigrati è sempre difficile. Lo è anche quando le differenze sono limitate, ad esempio quando la religione è la stessa, ma l’accento è differente, la lingua è un’altra lingua. È una legge universale degli umani. L’identità si può comprendere e affermare solo nella differenza. Solo affermando la diversità dell’altro posso affermare la mia identità. Ma questo solitamente comporta una forma di esclusione.
Durante l’intervallo circolò di bocca in bocca la voce che Chaiele e la sua famiglia erano venuti in Israele dalla Polonia a causa della gomulka. Roni Postevskí spiegò a tutti noi che la gomulka era una malattia incurabile, «ma non contagiosa» ci tranquillizzò. «Ignoranti!» lo rimproverò Pola, e ci arringò: «Wladyslaw Gomulka, bambini, sarà per sempre ricordato nella storia del nostro popolo come il primo segretario del Partito dei lavoratori polacco, come colui che consentì ai profughi ebrei rimasti in Polonia di fare ritorno nella propria patria, di emigrare nella Terra d’Israele». Nonostante le spiegazioni di Pola, anch’io corsi dietro a Chaiele e Yudele con i bambini del quartiere a gridare loro: «Gomulka!», «Dobrze!», «Proszg pani!». Prendevamo in giro i nuovi immigrati con grande soddisfazione. Come gli altri bambini anch’io non coinvolgevo Chaiele e Yudele nei nostri giochi, e non li invitavo a casa mia quando facevamo delle feste di classe. Da quando Chaiele e Yudele erano arrivati nel quartiere, finalmente sentii di essere una vera sabra. (p. 59)
Lizzie Doron riesce a creare nel lettore una suggestione profonda, perché tocca corde universali, e riesce a fare di una particolare condizione storico-personale e di momenti particolarissimi un precipitato della condizione umana. Come quando nella casa della shivà entra il vecchio fotografo e fa vedere ai presenti un album con una quantità di fotografie.
Uno spirito di altri tempi riprese possesso della casa. Yiddish e polacco risuonarono di nuovo, i vestiti di una volta tornarono in voga, battute, baci, segreti ormai scaduti riacquisirono colore, volti e nomi di morti svaniti furono per un attimo in vita.
E mentre Mishka sfogliava le pagine del suo album molte cominciarono a piangere. Alcune chiusero i conti con chi non aveva chiuso i conti con loro e ora sorrideva dalle fotografie, altre maledicevano i traditori che avevano accettato i risarcimenti e se n’erano andati, e poche perdonavano offese che avevano tenuto dentro ai propri cuori e ora erano state risvegliate da quelle foto mute.
Nella casa calò nuovamente il silenzio. Solo Gute sospirò: «Una volta c’era una famiglia».
Mishka chiuse l’album e quando lo chiuse fu come chiudere il passato. La casa si riempì nuovamente di voci e ospiti. Tutti conversavano tra di loro, deprecando i reumatismi e la perdita di memoria, scambiandosi consigli e medicine, informandosi sulla sorte dei figli e dei nipoti, parlando di affitti e pensioni, e lamentandosi di quanto ci fosse da soffrire in questa dura vita.
Nonostante fosse ormai buio, le persone non avrebbero voluto abbandonare la casa.
Prima di andarsene Genia mi disse: «Quando qui, di sera, da una delle case si sente ridere e chiacchierare, quando si vede la luce tra le stecche delle persiane e si sente l’odore di caffè e biscotti, allora è segno che un altro dei nostri se n’è andato».
Non risposi.
«Non devi essere triste,» mi incoraggiò «quando uno di noi se ne va è un buon motivo per festeggiare; del resto per noi la morte fa meno male della vita». (pp. 117-118)