La catastrofe

Nel 1959, a 8 anni, ero diventato un lettore accanitissimo dei romanzi di Verne e Salgari che erano stati del mio sconosciuto zio Gaetano, e che giacevano in soffitta. Li avevo sempre in mano, li leggevo e rileggevo, mi facevano sognare.
Mi madre, Teresa Ghedina, era una maestra elementare, e una donna molto pia. Era molto preoccupata dell’educazione dei suoi due figli, e stava in apprensione, temeva che qualcosa potesse deviarci dalla retta via, aveva una costante paura di commettere sbagli e incorrere in disattenzioni. Temeva, per esempio, che subissimo l’influsso di cattive compagnie, e che leggessimo libri non buoni. Così si preoccupò molto del mio leggere in continuazione romanzi di avventura, e un giorno chiamò a casa il parroco, don Gino, perché esaminasse quello che leggevo e decidesse lui se potessi continuare o no. In quei giorni stavo leggendo Cinque settimane in pallone di Verne, con grande entusiasmo. Don Gino si fece consegnare il libro, lo sfogliò, lesse a voce alta una pagina, e guardandomi fisso mi chiese: «Ti piace ‘sta roba?».

Avevo ricevuto un’educazione cattolica Anni Cinquanta, molto pesante e fondata sull’ossessione del peccato e delle sue gravissime conseguenze. Più che di Cristo, al catechismo mi si era parlato del demonio e di tutte le sue incarnazioni attuali: i comunisti, i protestanti e soprattutto i piaceri di questo mondo. In realtà, devo riconoscere che il cappellano, don Carlo, non era molto su questa linea, ma il catechismo lo facevano alcune piissime signore, che terrorizzavano i bambini con storie di peccatori puniti dal demonio, racconti che mi regalarono molti incubi notturni. Insomma, mai avrei voluto contraddire un prete, da cui dipendeva la salvezza della mia anima dal fuoco dell’inferno. Così, alla domanda di don Gino risposi con un tremante «no…». Fu una catastrofe psicologica e culturale, che mi segnò per moltissimo tempo. La mamma fece sparire tutti i libri di Salgari e Verne, e io non presi più in mano un romanzo fino ai miei sedici anni.